La strada di Juan Diego

 di Emanuele Dominioni

 

Grande successo per il recital di Juan Diego Flòrez alla Scala, che ha aperto e confermato riflessioni, prospettive, possibilità e interrogativi sullo sviluppo della carriera del tenore peruviano.

MILANO 19 giugno 2015 - Il ritorno alla Scala di Juan Diego Flòrez è accolto da un teatro gremito in ogni suo ordine. Il pubblico milanese (composto per buona parte da turisti qui per Expo) sembra gradire il fitto programma messo in campo dal sommo teatro lombardo in occasione del grande evento internazionale. Nel solo mese di giugno troviamo, infatti, una programmazione superlativa sia per numero sia per valore: Co2 di Battistelli, Lucia di Lammermoor, Carmen, Cavalleria rusticana e Pagliacci, Tosca oltre ai recital di Flòrez e Nucci e i concerti straordinari della Filarmonica della Scala. Ciò oltre a rincuorarci generalmente sulle sorti della Musica in italia, ci permette di auspicare la medesima densità di recite e concerti anche per il futuro, come avviene a Vienna, per esempio, e in altre illustri realtà europee.

Dopo il grande successo del concerto di Jonas Kaufmann con l'Orchestra Filarmonica della Scala [leggi la recensione], torniamo qui a una cornice più familiare. Un recital che vede al pianoforte il fido Vincenzo Scalera e segna il ritorno di Flòrez al Piermarini dopo il forfait di un anno fa che lo vide costretto a cancellare quasi tutte le recite del Comte Ory. La sintonia d'intenti col pianista è totale e le sonorità che emergono da questa simbiosi artistica si misurano sul piano di una capacità di fraseggiare insieme davvero mirabile.

La voce del tenore peruviano è innegabilmente mutata col tempo. Una maggiore liricità e una qualità di legato che nasce da una raffinatezza unica nel saper porgere la frase senza inficiare in alcun modo l'emissione adamantina, gli permettono di scoprire nuovi repertori, soprattutto quello francese. D'altro canto, invece, il timbro, la vocalità e lo spessore nel suo complesso si mantengono sulla scia del puro tenore di grazia e, nonostante i lodevoli sforzi interpretativi nella liederistica, da lui ci si aspetta sempre ciò di cui iè campione, ossia il belcanto rossiniano. Purtroppo i segni del tempo si sentono anche sul piano di una maggiore cautela all'approccio agli acuti, e di una voce che sembra essersi ridimensionata proprio in quella tessitura che l'ha resa celebre. Le puntature al do e al si che vengono aggiunte sono quasi accennate o tenute al massimo due o tre secondi. Florez si giustifica a metà del concerto parlando direttamente col pubblico della presenza di catarro che, nonostante non sia malato, lo mette in difficoltà. L'approssimarsi dell'appuntamento con l'Otello rossiniano proprio qui alla Scala pone delle domande a riguardo. E' condizione passeggera o davvero siamo di fronte a una mutazione vocale più importante? Un segnale si potrebbe ravvisare anche nel fatto che nella scelta dei brani Flòrez non rischia. Il programma, denso di preziose melodie e fascinazioni d'oltralpe, non lo espone granchè sul piano tecnico, e l'isolato tributo a Rossini (sebbene eseguito in modo ineccepibile) non è in definitiva ciò che ci si aspetterebbe dal numero uno in questo repertorio.

Il concerto si apre con le tre liriche di Stefano Donaudy, cesellate con grande cura di fraseggio e grazia che preludono alle tre canzoni tostiane in cui il timbro solare del tenore si sposa naturalmente alla fresca malinconia della scrittura dell'autore partenopeo. L'aria di Narciso dal Turco in Italia ci riporta agli inizi della carriera di Flòrez e la maestria nel  rendere lo stile del pesarese sono lì ancora a fare scuola. Il brano dalla Lucrezia Borgia invece si distingue per qualità del legato e scavo interpretativo da vero fuoriclasse. Ciò che manca, inutile dirlo, è quella  liricità e quel colore che il personaggio e la sofferta vocalità donizettiana esigono.

Tutta dedicata alla Francia la seconda parte del concerto, che si apre con Henri Duparc e le sue celebri liriche intrise di screziato simbolismo. L'importanza e l'essenza della parola in parte si perdono nella perfetta linea vocale di Flòrez, più attento alla qualità  stilistica e musicale della frase che alla forza della tormentata parola poetica. A suo onore, osserviamo che la dizione e la pronuncia francese del tenore peruviano sono parse di grande qualità, nonostante la difficoltà nel saper scavare nell'espressività dei suoni di una lingua che rimane fra le più ostiche da cantare. Arrivando a Massenet e Gounod, Flòrez ci fa capire che, ad ogni modo, abbiamo raggiunto la meta prefissata di questo percorso, e che forse, in senso lato, potrebbe essere l'approdo, fra qualche anno, della sua carriera. Senza dubbio la sua vocalità sa modellarsi alle esigenze di questo repertorio e i dividendi pagati sul piano dell'espressività sono altissimi. "Ah Lève-toi soleil" in particolare è parsa illuminante in tal senso. Flòrez senza dubbio alcuno potrebbe essere un Romèo convincente: ha le carte in regola, il physique du rôle e non resta che attendere speranzosi una certa maturazione vocale e di stile.

Sette sono stati i bis, in cui Flòrez ha anche dialogato e scherzato con la platea che richiedeva brani a gran voce e con un pubblico sempre più infervorato che ha potuto deliziarsi con belle prove vocali di "Au mont Ida" dalla Belle Hélène, "M'apparì" da Martha, "Una furtiva lagrima", e un tributo alla canzone napoletana e latina con Torna a Surriento, Marechiare, Jurame e Granada.