Lo scettro di Edita

 di Francesco Lora

La Gruberova è di nuovo Maria Stuarda, Anna Bolena ed Elisabetta Tudor in un programma dedicato per intero a Donizetti. Il Teatro alla Scala è sede di un trionfo annunciato, a dispetto dei segni del declino vocale, e accoglie forse l’ultimo grande appuntamento italiano della diva.

MILANO, 23 luglio 2015 – Negli ultimi vent’anni, mentre l’Europa centrale faceva scorpacciate d’ascolti, l’Italia ha sì e no conosciuto la seconda metà della carriera di Edita Gruberova: se la memoria non tradisce, non più che una decina di concerti tra il Teatro alla Scala di Milano e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, e due sole produzioni operistiche, I Puritani di Bellini al Teatro Comunale di Bologna (1997) e Linda di Chamounix alla Scala (1998). Non tutti i nostri melomani sogliono o possono andare a recuperare all’estero ciò che non varca da sé le Alpi. Così, vi sono appassionati con pochi o molti capelli bianchi fermi nel ricordo alla Gruberova degli scorsi anni Novanta; e v’è un’intera generazione di giovani che ha conosciuto il massimo soprano slovacco solamente attraverso le registrazioni degli anni d’oro.

Soprattutto questi ultimi non potranno mai immaginare quale fenomeno musicale ella sia stata, voce eccelsa ma non fonogenica, in aspetti che nessun microfono ha potuto appieno prendere e fissare: un canto che si spande in sala come per effusione, posando nuove note dove le precedenti non hanno ancora cessato di risuonare nello spazio. Un esempio: nella Straniera di Bellini, la protagonista entra in scena dopo una lunga cadenza intonata tra le quinte; in una recente esecuzione in forma di concerto al Musikverein di Vienna (2013), il momento disorientava, meravigliava e si iscriveva indelebile nella memoria: nel canto della diva ancora nascosta al pubblico, i segmenti della melodia riverberavano da un angolo all’altro della sala, come se l’origine del suono (non visibile) fosse materialmente presente in ogni punto. Un miracolo di “proiezione enigmatica”.

Pure, chi abbia seguìto la Gruberova nell’ultimo lustro sa quali sgarbi abbia inflitto il tempo a quella vocalità d’oro. Molti altri, al contrario, avranno bisogno di qualche tempo per raccapezzarsi di quanto ascoltato nel concerto-celebrazione del 23 luglio al Teatro alla Scala. In programma, i quadri finali della “trilogia Tudor” di Donizetti; in ordine d’esecuzione: Maria Stuarda, Anna Bolena e Roberto Devereux; in aggiunta: la sinfonia da ciascun melodramma e la “scena della confessione” da Maria Stuarda; in capo d’imputazione: l’errore di omettere, nel quadro finale di quest’ultima opera, le scene VII e VIII dell’atto III, dopo aver regolarmente eseguito il coro della scena VI; sparisce così la sublime preghiera «Deh! Tu di un’umile preghiera il suono», che a tutti gli effetti fa parte dell’architettura della “gran scena” musicale.

Le tre opere documentano la militanza donizettiana della Gruberova, forse la sua più assidua, distribuendosi tuttavia su gradi diversi di predilezione. Le pagine da Maria Stuarda, il titolo meno frequentato, seguono con poca astuzia la versione “puntata” per la Malibran, con talune melodie deviate dall’acuto al grave e dunque rese viepiù ostiche per un soprano leggero. Più continuo è il rapporto con Anna Bolena, che la cantante riprenderà a Vienna nell’ottobre prossimo, ed entusiastico è quello con Roberto Devereux, dichiaratamente la partitura da lei più amata. In ogni caso, le tre partiture impongono alla Gruberova un caparbio adeguamento di vocalità: il canonico espediente retorico-musicale vuole che l’autorità – tanto più quella regale – sia formulata con il canto di sbalzo tra registri opposti, laddove la nostra amerebbe rimanere stabile nei cieli del pentagramma.

Maria Stuarda, Anna Bolena, Elisabetta d’Inghilterra: quali personaggi escono dalla ricca antologia tudoriana? Uno solo, comune a tutte le opere eppure a loro estraneo. La Gruberova, in effetti, attribuisce a ciascuno le medesime movenze, le medesime risorse, il medesimo profilo. Stuarda è regina deposta che mai perde la propria lucidità di fronte alla sorte; Bolena è regina consorte che alterna lucidità e delirio di fronte al patibolo; Elisabetta è regina regnante i rimorsi della quale si traducono in fosche visioni. Ma per la virtuosa poco o nulla le differenzia, e a unirle con un unico tratto interpretativo è l’accento poco autorevole e anzi sempre esaltato, fuori di sé, farneticante, nevrotico, mobilissimo nei frammenti minuti e però mai inframmezzato da un diverso affetto che conferisca prospettiva psicologica a caratteri ben più frastagliati.

Non si è però la Gruberova per nulla: anche quando ella ponga enfasi recitativa su parole a caso, dimostrando di conoscere la situazione drammatica ma non sempre il senso stretto dei versi, e anche quando ella calchi la mano fino a eccessi veristi nella scena dal Roberto Devereux, lo spettatore non può staccare occhi e orecchi dalla sua figura e dal suo canto; qualcosa gli preclude la distrazione. Si assiste così vigilissimi a un’Atene, una Pompei, una Pergamo della vocalità: le rovine conclamate non rendono meno chiare le informazioni della grandezza, quand’anche passata, ma insieme evocano qualche ricordo antico e chiamano qualche nuova indulgenza. Rimane miracolosamente intatto lo smalto, che non ammette spigoli o ruvidezze in un timbro ancora fresco; e i fiati, per quanto accorciati rispetto a un tempo, rimangono in assoluto di lunghezza impressionante.

Si ascoltano così, con quello smalto e con quei fiati, i pianissimi alati, il legato impalpabile e i filati opalini rimasti senza erede. Altrove, il guasto si è invece fatto evidente. I portamenti ovunque disseminati procedono da nota indeterminata ad altra non sempre coincidente con quella dovuta; l’intonazione è anzi periclitante quasi a ogni nota tenuta, e fiotti d’aria tolgono suono a un registro centrale sempre stato cauto e infantile, nonché a un registro grave sempre più faticoso e artefatto. Il registro sopracuto, a sua volta, è ora come allora spavaldamente legato a quello acuto, come a costituire un’unica arcata: ma l’architrave non regge più, e le ascese al Re in Maria Stuarda, al Mi bemolle in Anna Bolena e ancora al Re in Roberto Devereux sono tutte nervose, rotte, gridate. La volontà della diva non basta a conservarle questo scettro.

Eppure il pubblico adorante festeggia la Gruberova come da molto tempo non s’era sentito con altra cantante: lunghi applausi all’ingresso e dopo ogni sezione di rilievo, ovazione in piedi di tredici minuti dopo l’ultima cabaletta, ripetizione della stessa per placare gli osanna, venti altri minuti di venerazione, infine il corteo di trionfo in via Filodrammatici. L’ultimo inchino italiano, nel crepuscolo, a una diva di un’altra epoca. Mentre quasi ci si dimentica di riferire del direttore Marco Armiliato, fedele sostenitore del canto dal podio, e della pasta nostrana di Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, fragranti e autentici nel porgere come mai i complessi di Monaco di Baviera, Zurigo e Vienna hanno saputo esserlo intorno alla Gruberova. Sontuoso Giovanni Furlanetto nel duetto da Maria Stuarda e validi tutti gli allievi di canto scaligeri nelle battute dei pertichini.