Rapsodia Lachmanniana

 di Andrea R. G. Pedrotti

La rassegna cameristica sassone offre non solo perle musicali preziose e raffinate, ma anche un'immersione nella Storia e nelle sue ferite, nella passione e nella consapevolezza del valore della cultura umanistica.

PrologoQUI

Prima giornata: Rossini, Beethoven, KoechlinQUI

Seconda giornata: Stockhausen, Beethoven, Mozart, Piazzolla e TanejewQUI

Terza giornata: Brahms Eisler, SchubertQUI

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Prologo

Nelle giornate del 21, 22 e 23 agosto 2015 abbiamo avuto il piacere di esser presenti al Moritzburg Festival, nella accogliente e bella Sassonia: un'esperienza istruttiva, che va a contrapporsi alla distruzione culturale umanistica odierna. Un ritorno al passato che si fa presente, senza che il sentimento provato scada in un senso di nostalgia, o peggio, d'apostasia dell'oggi. Gli uomini devono vivere la propria epoca, consci di poggiare sulle spalle di giganti, se sperano di divenir tali anch'essi. Un edificio senza fondamenta è destinato inesorabilmente a crollare e di esso non possono rimanere altro che macerie. Troppo spesso ormai si parla per motti, sentito dire e frasi a effetto, ma senza sapere, in sostanza, che cosa ci sia sotto. Senza sapere quali siano le fondamenta.

In terra di Germania, dove l'umanità visse una delle più immani tragedie che la storia ricordi, troviamo una fiammella di speranza. Come un eroe mitologico che cade e si rialza più forte di prima, dalle ceneri possono rinascere messi ancor più rigogliose, concimate dalla ricchezza d'un humus culturale passato, ma mai trapassato.

Il viaggio attraverso questa dolorosa e stimolante memoria ha inizio a Dresda; è proprio la capitale della Sassonia a evocare i primi afflati di stupore. Alcuni palazzi si alzano ancora maestosi, memori d'una bellezza e di un'eleganza che fu. Tracce dei pesanti bombardamenti si riscontrano ovunque, senza rovine, ma con un'alternanza stilistica fra antico e moderno in parte disarmante. Non possiamo esimerci dal pensare come dovesse essere l'abitato immediatamente dopo la caduta delle bombe: una grande distesa di rovine, un paesaggio quasi lunare, risorto dalle sue ceneri, ma senza che le cicatrici vengano celate.

Questa è Dresda oggi, ma, spostandoci verso Moritzburg, un altro pensiero corre al passato, a quel primo giorno di settembre del 1939, quando le truppe della Wehrmacht invasero la vicinissima Polonia, scatenando la grande reazione a catena, che non tardò a esplodere, dopo le annessioni di Austria e Cecoslovacchia. Ogni cosa nella natura vive del rapporto causa-effetto e non stiamo ora a indagare quale sia stato il gene d'origine della dell'insano morbo che strinse d'assedio l'Europa degli anni '30 e '40. Una guerra senza cavalleria, una guerra che mirava alla distruzione sistematica dell'uomo contro l'uomo e, in fondo, contro se stesso. L'uomo, tuttavia, sta ancora lottando, poiché la forza vitale non cessa di esistere, non ha cessato allora e non lo farà oggi.

Moritzburg è una cittadina accogliente, non molto popolosa, ma i cittadini sono pacati, gentili e di gran cordialità. Ampi spazi si aprono nel nostro orizzonte, fatti di fitte foreste, specchi d'acqua a fil di terreno e una grande aria di mistero, quasi di melanconia. Poco lontanto da noi si trovava una città celebre per aver dato i natali a Sigmund Freud, ma che ci ha colpiti per ben altro motivo, ossia il suo nome: “Freiberg”. Questo è un nome che suggerisce ben poco a chi non conosca la lingua tedesca, ma la cui traduzione letterale è incredibilmente esplicativa: “montagna libera”. Ecco un'immagine del territorio e dello spirito che ci circonda, la libertà non nel senso pratico, ma la libertà di ragionare, di sognare, di formulare elucubrazioni, in un vortice di profondità.

Sempre presso di noi, ma dall'altra parte della Sassonia, nacque un altro celebre personaggio, che molto ci suggerisce in quanto tale, più che per il nome della sua città: Karl Lachmann, il padre del metodo stemmatico, il grande procedimento d'analisi, non solo filologica, che si basa sulle fondamenta della logica hegeliana, “tesi”, “antitesi” e “sintesi”. Lachmann non le chiamava così e molte altre scienze e arti non chiamarono così il percorso, ma questo altro non è ciò che potremmo chiamare “la natura delle cose”, citando il celebre testo di Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, prima espressione del metodo stemmatico stesso. Che cosa ci ha portati a questa, seppur breve, raspodia Lachmanniana? La riscoperta della tesi, della recensio, come la chiamava lui, della prima fase: la passione, la vitalità, la fantasia, l'originalità la creatività. Basterebbe dire l'anima.

Nel fresco pomeriggio di sabato 22 agosto, fra pochi motori e molte carrozze, un locale professionista delle scienze mi domandò cosa avessi studiato. Con un lieve tratto di imbarazzo, dovuto all'autocommiserazione che chi si occupa di lettere e filosofia ha di sé in Italia, risposi: “filologia classica”. Sempre in Italia ci si aspetta risposte del genere: “No, intendevo di che cosa si occupa, nel tempo libero anch'io colleziono barattoli di latta”. Al contrario, questo serio professionista sassone sbottò in un sincero: “Schön!”, passando da un atteggiamento di cortesia comune al luogo, a un profondo rispetto, citando lui stesso con ammirazione personaggi come Karl Lachmann (di cui parlai anche la sera precedente con una simpatica giornalista russa), filosofi e linguisti. Dopo un iniziale stupore per questa reazione, del tutto inaspettata, è subentrato uno strano senso di orgoglio, di appagamento, di soddisfazione.

All'estero ci ammirano anche per quello che la cultura classica ha saputo dare, per quello che la musica ha saputo dare. In Austria, in Germania, in Polonia ci ammirano per quello che abbiamo saputo regalare e noi stessi facciamo di tutto per distruggere i giganti che abbiamo generato e sulle cui spalle ora non vogliamo poggiarci. I Titani tornano sempre dal Tartaro e Urano è destinato a soccombere sotto la falce di Crono. La falce di Crono, la falce del tempo, che dimostra che la stilla dell'anima, l'anima del fanciullo, l'anima del “perché”, vincerà per sempre, poiché l'uomo vince sempre l'uomo.

Orrori come la guerra, i bombardamenti, l'antisemitismo di allora, sono stati sconfitti, ma ricordiamoci sempre che la storia è ciclica, la storia si ripete e l'unico modo per sfuggire a un nuovo verificarsi di tali drammi, è combattere i nostri più grandi nemici: la superficialità e l'ignoranza.

Questa lunga introduzione fa da lancio al commento dei bei concerti che abbiamo ascoltato. Riguardo alcuni di essi, temiamo sempre che le parole siano avare, rispetto alle emozioni, poiché è sempre più semplice -anche se spiacevole- sottolineare errori e imprecisioni, piuttosto che tessere lodi.


Prima giornata: Rossini, Beethoven, Koechlin

Il primo concerto ha avuto luogo all'interno della Monströsensaal dello Schloss Moritzurg. Sala piccola, riccamente affrescata, nel contesto di un maniero di straordinaria suggestione e ottima acustica.

Percorso cronologico inverso nella scelta dei brani, partendo da Charles Koechlin, con i suoi Quatre petites pièces per pianoforte, violino e corno op 32, affidate a Alessio Bax, Mira Wang e Felix Klieser, quest'ultimo, sinceramente, strumentista non straordinario, che, privo degli arti superiori, esegue tutte le parti aiutandosi con i piedi e speciali cavalletti.

Il brano è ben eseguito e le sfumature sono aiutate dalla bella acustica. Rispetto a ciò che abbiamo ascoltato nel nostro recente viaggio in Baviera [leggi la recensione], in questo come in tutti gli altri concerti, notiamo negli artisti maggior attenzione al fraseggio e all'interpretazione, meno meccanicità, oseremmo dire. Senza nulla togliere ad altri, un grande aiuto nella formazione del sentire, viene dalla vicinanza con i paesi dell'Est (Polonia e Repubblica Ceca), che consentono di affiancare alla notoria precisione tedesca, la calda passionalità delle genti di quelle terre.

Grandi interpreti per il brano successivo, il Duo per violoncello e contrabbasso in Re maggiore di Gioachino Rossini. Tre bei movimenti, affrontati con precisa intensità dal violoncellista, nonché direttore artistico dell'evento, Jan Vogler, di cui parlammo già lungamente in occasione del concerto al Teatro Filarmonico di Verona lo scorso marzo [leggi la recensione], e dell'ottimo contrabbassista Janne Saksala. Una bella esecuzione di un pezzo cameristico raro, d'un autore per noi celeberrimo, soprattutto come operista. Chiusura del primo giorno musicale con Ludwig van Beethoven (quindi facendo un piccolo passo temporale indietro) e lo Streichquintett in Do maggiore op. 29, con un generale cambio di interpreti: Karen Gomyo e Annabelle Meare al violino, il bravissimo ed espressivo Lawrence Power e Yura Lee alla viola e Guy Johnston al violoncello.

Tutti e tre i brani hanno puntavano su delle dinamiche veloci e incalzanti, riflessive, senza scadere nell'introspezione malinconica. Gran successo per tutti, con una bella ed elegante cena, offerta a pubblico, artisti e critica, nelle stanze del medesimo castello.


Seconda giornata: Stockhausen, Beethoven, Mozart, Piazzolla e Tanejew

Secondo giorno caratterizzato da trasferimento nella chiesa evangelica di Moritzuburg, con il Porträkonzert di Francesco Piemontesi.

Purtroppo qui abbiamo notato la pessima acustica, tipica di molti edifici religiosi, che ha inficiato la possibilità per l'artista d'un completo uso espressivo del pedale. Piemontesi ha principiato con il Klaiverstück V di Karheinz Stockhausen e la Sonata n. 31 in La bemolle maggiore op. 110 Ludwig Van Beethoven; entrambi eseguiti ineccepibilmente da punto di vista tecnico, ma poco penetranti nell'espressione, per motivi legati allo spazio. Molto bello il bis: La Suite n. 15 in Sib minore di Handel, la quale, non necessitando di un eccessivo uso del pedale, ha consentito a Piemontesi di offrire un fraseggio più efficace.

Stesso spazio per il concerto immediatamente successivo, con l'esecuzione iniziale del Quintetto con corno in Mi bemolle maggiore KV 407 di Wolfgang Amadeus Mozart, affidato a Felix Klieser (corno), Mira Wang (violino), Yura Lee (viola), Lawrence Power (viola) e Christian Poltéra (violoncello).

Secondo brano è stato un travolgente tango di Astor Piazzolla (arrangiato dagli stessi esecutori), magnificamente eseguito a quattro mani dal pianista pugliese Alessio Bax e dalla collega, nonché moglie, Lucille Chung.

Chiusura di giornata con una rarità, il Quintetto per pianoforte in Sol minore op. 30 di Sergj Tanejew, con Alessio Bax al pianoforte, Henning Kraggerud al violino, Annabelle Meare al violino, Lawrence Power alla viola e Guy Johnston al violoncello. Una bella scoperta per un brano d'ascolto tutt'altro che frequente, caratterizzato da una scrittura viva e coinvolgente.


Terza giornata: Brahms, Eisler, Schubert

La tre giorni sassone ha avuto il suo epilogo con quello che, probabilmente, si è dimostrato il miglior concerto di tutto il soggiorno. Un bellissimo programma, colmo di intensi contenuti, le cui eco sono state ampliate dalle caratteristiche della struttura che ospitava l'evento, ovvero, ancora una volta la Monströsensaal dello Schloss Moritzurg.

Ordine di significati e non cronologico, ancora una volta. Si è aperto con Johannes Brahms e il suo Trio per pianoforte, violino e corno in Mi bemolle maggiore op 40, presagio e principio dell'apoteosi successiva. Un brano figlio del classicismo, che verte meno sulla pura melodia e che sembra narrare qualcosa, qualcosa che avrà il suo epilogo solo nella terza parte della serata. Francesco Piemontesi è finalmente libero di esprimersi con partecipazione, accompagnato da Karen Gomyo e Felix Klieser, in esecuzione maiuscola. Piccola pausa per allentare la tensione e far sì che la concentrazione non venga meno con l'esecuzione d'un brano più breve e semplice: il Duo per violino e violoncello op. 7/1 di Hanns Eisler. Chiusura con l'apoteosi e un effetto narrativo degno della più grande espressione dello Sturm und Drang: già il luogo, con i suoi paesaggi, i suoi castelli, le sue grandi statue, non poteva che evocare tali sentimenti di intensità ed eternità, ma la scelta di eseguire il Trio per pianoforte, violino e violoncello in Mi bemolle maggiore  op. 100 D929 di Franz Schubert, ne è stata epilogo ideale. Meno poesia e più struggimento, rispetto a Brahms: morte e sacrificio in tutti e quattro i movimenti, con un climax ascendente di emozioni che pare aver la sua fine nella morte e nel sacrificio. Un'autentica tempesta e impeto di emozioni, che traspare dalla completa catarsi dei volti degli artisti, specialmente Piemontesi.

Così si è chiusa la nostra esperienza, almeno per questa edizione, in terra di Sassonia, un'esperienza positiva, che si spera venga conosciuta e imitata anche altrove.