L'anima barocca di Bologna

 di Roberta Pedrotti

Il Concerto per la Solennità di S. Petronio, la ricorrenza forse più sentita dalla comunità bolognese, è un'occasione irripetibile per immergersi nella più autentica metafora e traduzione sonora dell'anima di una città, a dispetto della patina neomedievale imbastita cent'anni fa, indelebilmente, intimamente, assolutamente barocca.

BOLOGNA 2 ottobre 2015 - L'edizione 2015 del concerto per la solennità di S. Petronio è tutta dedicata a Giacomo Antonio Perti, forse il più acuto interprete musicale dell'anima della città. Un'anima barocca fatta di giochi d'illusioni e di prospettive, che si slancia verso l'alto con quel che resta delle sue torri, ma costruisce anche un ventre segreto di acque oscure e sotterranee, il Reno e l'Aposa interrati. Poco ne resta, forse, a uno sguardo superficiale, abbagliato dal fasullo medioevo dilagato con le mode neogotiche di un secolo fa circa. Ne resta l'ombra, lo spirito nella musica, in una musica che si colloca nello spazio, in alto al centro gli archi, le voci e il basso continuo a dialogare dai lati del presbiterio (cornu epistolae e cornu evangelii), dove si raccoglie il potere più antico e radicato della città, quello della curia arcivescovile, mescolato per l'occasione a un insieme eterogeneo di élite laica, parenti e partner dei musicisti, esponenti della musicologia e della critica.

Critica che sarebbe sciocco s'indirizzasse sui dettagli filologici, o meglio, non di filologia esecutiva, superata dalla filologia del contesto e dell'immaginifico spirito barocco: già l'amabile introduzione e il benvenuto di monsignor Cavina ci allontana serenamente da pensieri accademici, mostrandosi così candidamente entusiasta di una formula («Laus Deo») come fosse un'espressione devozionale dell'autore in un manoscritto creduto autografo, quando essa è invece una chiusa convenzionale usata da un amanuense in una bella copia usata dai copisti e presente anche sui manoscritti petroniani che testimoniano come Perti avrebbe rielaborato e destinato alla cattedrale bolognese materiale dei suoi mottetti medicei. Si nota invece come il patrimonio dell’Archivio musicale di S. Petronio anche e soprattutto nei testi riscoperti, rivalutati ed editi negli ultimi anni, resti perno dell’attività della relativa Cappella musicale e di quella dei maestri che si avvicendano ciascuno con la sua personalità e le sue peculiarità. Come questo patrimonio si faccia specchio e portavoce dell'anima della città, della sua anima barocca, già solo quando l'eco di un accordo, di una fuga, di una polifonia tarda a spegnersi, lo percepiamo fermarsi a risuonare nelle navate affollate, forse un po' soffusa e confusa (dodici secondi di riverbero), certo parte di quel gioco d'illusioni e vertigini che è alla radice dell'idea stessa di barocco.

È musica bellissima quella di Perti, il cui grado di raffinatezza è talmente elevato da apparire di una chiarezza ammirevole, perfino di una semplicità si direbbe anche quando si gestiscono gli intrecci di sedici voci, non meno che nelle arie, di un'ispirazione, di una bellezza lirica davvero abbaglianti. Il soprano Elena Cecchi Fedi ne è un'interprete ideale, per la perfetta compenetrazione dello stile, per il garbo, la fluidità della vocalizzazione e la compostezza espressiva: i recitativi e le arie dal mottetto Date melos, date honores (Firenze 1705), “Quam dulce repetit” e “Fremunt tartara”, sono autentiche gemme. Il tenore Alberto Allegrezza è impegnato in una parte che non gli permette di sfoggiare più di tanto quell'eloquenza declamatoria che soprattutto apprezziamo in lui: sia nel citato mottetto sia nella Messa a quattro cori (Bologna 1749), eseguita in apertura, permane comunque la chiarezza della dizione in una scrittura più virtuosistica, in questo caso – unico fra i solisti in un generale solenne riserbo – espressa anche con una esuberante cadenza nel trio “Domine Deus, rex cælestis”. Federica Carnevale, contralto, e Giacomo Contro, baritono, condividono scelte più castigate sia nella Messa sia nel Mottetto.

Di cori, s'è accennato, la Messa ne richiede quattro, ossia, suddivide le voci in quattro gruppi ciascuno dei quali comprende a sua volta quattro registri. E a rimpolpare i venti elementi della Cappella di S. Petronio giungono i ventidue del Collegium Musicum Almae Matris dell'Università di Bologna (maestri Enrico Lombardi e David Wilton), i diciotto dell'Ensemble Color Temporis e i ben trentaquattro del Coro Euridice (maestro Pier Paolo Scattolin). Tutti encomiabili nell'impegno e nella serietà della preparazione. Nonostante qualche squilibrio dato dai diversi pesi (forse rimodulare i gruppi in quantità omogenee avrebbe complicato le prove e la preparazione), l'effetto spaziale dell'intreccio delle voci è davvero formidabile, forse la principale ragione per cui fruire della polifonia – non importa se concepita o meno in origine per gli spazi immensi di S. Petronio – qui nella basilica assume un fascino, un valore incomparabile. L'esperienza della fisicità della polifonia non potrà mai essere surrogata da un'esecuzione frontale, né tantomeno da un disco, ed è uno dei motivi – non disgiunto dalla materializzazione sonora dell'anima barocca della città – per cui è difficile mancare a questo concerto.

Francesco Tasini suona l'organo più antico, un Lorenzo da Prato del 1475; Sara Dieci quello di Baldassarre Malamini del 1596; a loro si uniscono per il basso continuo, Roberto Gini al violoncello e Gianni Valgimigli al contrabbasso. L'orchestra della cappella di S. Petronio, interprete anche della Sinfonia a quattro del 1755, fa riferimento al primo violino di Enrico Parizzi, mentre tutto il composito e articolato insieme di voci e strumenti fa capo al maestro della cappella arcivescovile, Michele Vannelli, che firma nelle note di sala un sunto compilativo della principale letteratura musicologica sull'argomento.

L'ora o poco più di musica in basilica sospende il tempo, ancora, in barocca illusione. Fuori non piove più, ma è già l'umido autunno bolognese, nella più bolognese delle serate.