di Stefano Ceccarelli
Il secondo appuntamento dell’integrale delle sinfonie beethoveniane (Beethoven e i contemporanei) vede il maestro Pappano impegnato nella Seconda e nella Quinta introdotte dall’ouverture della Olympie di Spontini, contemporaneo di Beethoven – in questo caso, la determinazione di contemporaneo (volutamente anfibologica nel titolo) vale a indicare un coevo effettivo del genio di Bonn. Il successo del concerto è travolgente, a testimoniare l’impressionante inizio di stagione dell’Accademia di Santa Cecilia.
ROMA, 13 ottobre 2015 – A causa di un problema tecnico – da voci di corridoio, un controllo dei vigili del fuoco – l’ingresso alla sala maggiore dell’Auditorium Parco della Musica è stato permesso non prima di pochi minuti dall’inizio atteso del concerto, con conseguente intasamento da folla di amanti della musica: grazie a questa fortuita circostanza, mi sono potuto materialmente rendere conto dell’enorme quantità di persone giunte a godere di Beethoven e del suo sommo interprete, Antonio Pappano, persone che l’hanno applaudito con quanto calore avevano in corpo.
Pappano sceglie di aprire il concerto con l’ouverture dell’opera Olympie di Gaspare Spontini, introducendoci in un mondo sonoro oramai lontano, quello magniloquente della tragédie lyrique: quando l’Olympie ebbe la sua première Beethoven era già un astro affermato e aveva già composto e rimaneggiato diverse volte la sua unica opera, Fidelio. Pappano è frizzante, spumeggiante, epico. Un’amabile e colta signora, che sedeva accanto a me, ha esclamato alla fine dell’esecuzione: «si è proprio divertito tantissimo a dirigerlo!». Ecco, lo spirito è proprio questo: Pappano s’è dilettato dei ritmi cangianti, dei colori ora delicati, ora monumentali, affidando la riuscita dell’esecuzione all’ottima compagine degli archi dell’Accademia. Gli applausi sono già generosissimi, e ancora non s’è udito Beethoven.
Pochi indugi: incomincia la Seconda sinfonia in re maggiore op. 36 di Ludwig van Beethoven. Pappano l’interpreta con quel piglio foscoliano del ritmo che sempre lo caratterizza. Già l’Adagio molto del I movimento è colto con energia, che si sprigiona nel rutilante guizzo degli archi su un interrogativo vapore orchestrale: qui Pappano è nelle sue acque, cogliendo ogni sfumatura armonica e ritmica, esaltando la tavolozza dei colori orchestrali. Pappano interpreta il movimento come una brillante cavalcata: il dinamismo che pervade l’intera composizione ne è galvanizzato. Il Larghetto (II)ha l’intimo carattere retrò di un decadente classicismo, decadente come poteva essere percepito, il classicismo, da un uomo ben consapevole che quel mondo declinava al termine. Chiaramente, qui Pappano gioca più con i colori, con gli indugi, su una ritmica meno varia, atta a esaltare l’allure settecentesco del pezzo. Di nuovo fa capolino una linea di pura energia: è lo Scherzo (III), di cui Pappano sillaba ogni cellula ritmica, squadernando ogni accento (assai apprezzabili i repentini cambi di volume orchestrale). Il poderoso Allegro molto (IV) convoglia tutto nel potentissimo finale, «che scuote da vicino il pacifico ascoltatore» (G. Pestelli): Pappano è in estasi ritmica e sonora. Un gesto di chiusura e esplodono gli applausi.
Dopo l’intervallo, Pappano si dirige sul podio e scoccano imperiose, rigorose le celeberrime serie di due pseudo-terzine («così il destino bussa alla porta», ebbe a dirne il compositore stesso) che aprono la Quinta sinfonia in do minore op. 67: i ribattuti degli archi sono lame taglienti, solo i legni e gli ottoni (corni) ci riportano a atmosfere più placide, uscendo dalla tempesta di questo primo movimento. Ho notato come Pappano incredibilmente riuscisse a far emergere il palpitare dei legni, quasi fosse un battito cardiaco. L’Andante con moto è tra i passi più belli che Beethoven abbia mai composto: e dovette amarlo molto, visto quant’era affezionato alla tecnica del tema con variazioni. Pappano esalta in ogni tema il suo profondo ethos: la dolcezza, la rêverie, l’elegia, l’epicità da elmetto. Grazia e mistero si fondono nell’impasto sonoro dell’Allegro. Come poi Pappano renda squisitamente il paludoso trapasso al finale (IV) lo possono testimoniare le migliaia di orecchie lì presenti. I colori si fanno solari: gli orchestrali mal trattengono uno spontaneo sorriso sulle labbra, bellissimo, poetico. La sinfonia si chiude nell’irraggiamento della musica beethoveniana: siamo veramente nel «regno infinito degli spiriti» di cui ci parla E. T. A. Hoffmann? Non lo so: ma il pubblico si spertica per osannare l’eccellente orchestra e il suo maestro.