Lugansky: un tocco fatato

 di Stefano Ceccarelli

L’apertura della stagione cameristica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia avviene con un artista di prim’ordine: il moscovita Nikolai Lugansky, dal tocco fatato e dal gusto raffinato. Un vero peccato che il pubblico a applaudirlo non fosse poi molto, né quello delle grandi occasioni. Ma il concerto (Franck, Schubert, Grieg, Čajkovskij) che ci regala è degno del miglior palcoscenico e dei palati più fini.

ROMA, 21 ottobre 2015 – L’artista prescelto per aprire la stagione cameristica 2015/2016 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è dei più raffinati: il moscovita Nikolai Lugansky, dal tocco delicatissimo, a tratti introverso, pianista di fioretto più che d’assalto. E il programma prescelto è intelligentemente calibrato per esaltarne le doti di fine esecutore. S’inizia col Preludio, Fuga e Variazione op. 18 di César Franck nella trascrizione pianistica di Bauer (Franck l’aveva pensato per organo e solo dopo trascritto per harmonium). Il tocco è notevolissimo: Lugansky ci mostra già il meglio di sé. L’interpretazione del preludio è acquatica, placidamente organistica, con uso del pedale di destra a legare e amalgamare i suoni. Al contemplativo preludio succede la fuga, che Lugansky esegue diminuendo la pressione del pedale e sgranando maggiormente i suoni, così da mantenere le parti perfettamente riconoscibili nelle sovrapposizioni. La successiva variazione stupisce per modernità e ispirazione melodica: ancora Lugansky varia la sua interpretazione, effondendosi in toni talora larmoyant.

Dopo gli applausi, Lugansky si cimenta nella Sonata in do minore D 958 di Franz Schubert. La dolcezza, la sua più caratteristica firma, la trasmette anche in uno spartito che potrebbe avere letture più decise, marcate – s’ascolti per esempio l’interpretazione di Sviatoslav Richter. Lo Schubert di Lugansky è tutto giocato sul tocco, sul respiro, sulle volatine, sui legati (e la D 958, delle ultime tre sonate, è quella che forse si presta, appunto, meglio). Il suono respira e l’interprete tornisce le colorazioni: di fatto, tutto l’Allegro è così gestito. E se manca quel tocco di virilità nel I, Lugansky cavalca l’onda della trascolorante dolcezza/rêverie del la bemolle maggiore dell’Adagio (II), incupendosi malinconicamente nello sviluppo, per riaprire ai raggi lunari della tonalità d’impianto. La malinconia si percepisce anche, in filigrana, nel Minuetto (III), dove tutto il ritmico sentimentalismo schubertiano è in ogni caso filtrato dall’aggraziata esecuzione del moscovita – aggraziata come una lirica del Poliziano, colta e intelligente. Nel finale attacca con eccellente timing la tarantella, che cavalca nei suoi sbalzi ritmici, passando con nonchalance all’ironia del successivo tema, per concludere la sonata. Gli applausi sono fragorosi (e vengono da un pubblico così esiguo!) tanto da chiamare Lugansky alla ribalta per ben tre volte.

Il secondo tempo è aperto dai Tre pezzi lirici di Edvard Grieg, un elogio di un’intimità borghese biedermeier. Lugansky non può che eseguirli con controllata naïveté, infondendo in ciascuno il suo proprio carattere, accentuando un vago esotismo coniugato a un’intimità tutta schumanniana. L’Arietta (n. 1 op. 12) di gusto mendelssohniano dà il destro a Lugansky per effondere la sua arte puramente lirica; il Papillon (n. 1 op. 43) è un gioco di arpeggi rincorrentesi come bambini su un prato aprico, cui Lugansky dona lucentezza – se ne può addirittura gustare, su Youtube, l’esecuzione sul rullo di pianoforte automatico (rimasterizzato) di Grieg stesso! Melancholie (n. 5 op. 47) è il terreno prediletto di Lugansky: intimismo e vago sapore orientale, debussiano. Un ammiratore d’eccezione di Grieg fu proprio Čajkovskij, che nel 1887 scrisse: «a mio parere Grieg è immensamente dotato. La sua musica è soffusa di una malinconia che incanta e che riflette le bellezze del paese norvegese, ora grandioso e maestosamente spazioso, ora scuro, non drammatico, povero, ma sempre immensamente affascinante per lo spirito di un uomo del nord; è qualcosa di molto vicino a noi, che trova subito risposta calda e cordiale nei nostri cuori». Lugansky non può che terminare il concerto onorando la sua patria: la “Grande Sonata” in sol maggiore op. 37 di Pëtr Il'ič Čajkovskij è scelta più che azzeccata. Ecco che il moscovita tira fuori il suo animo russo, senza peraltro rinunciare a uno “schumannianesimo” di fondo: gli accordi del Moderato e risoluto sono ben porti, ma sempre graziosamente, squillanti, ma con garbo. Qui emerge finalmente anche il virtuosismo più ginnico di Lugansky, fino all’accordo finale, in cui sembra quasi riprendere fiato dopo una corsa – lo fa cantare, infatti, ad libitum. L’Andante non troppo, quasi moderato, tutto giocato sull’ossessiva ripetizione di due note, vede Lugansky destreggiarsi nel dosare la pressione sui tasti, riuscendo perfettamente a non sfibrare, incrinare l’atmosfera rugiadosa e lievemente angosciante che Čajkovskij qui crea, solo interrotta dagli sprizzi estemporanei delle scale. Lugansky si sfrena nello Scherzo, sbrigliando il ritmo claudicante, quasi jazzato del brano, tutto sincopi, controtempi – di sconvolgente modernità per un Čajkovskij, visto e considerato che siamo nel 1878 in Russia! Con una cadenza si passa al Finale dove l’ethos russo si fa ben sentire: ecco accordi ben marcati, ma senza rinunciare a indugi e rallentamenti, ove necessario. Gli applausi sono caldissimi: il pianista ci regala come bis la meditativa Ninna nanna (n. 1 op. 16) di Čajkovskij nella trascrizione di Rachmaninov. Invitato da altri applausi aggiunge lo studio n. 6 e il n. 7 di Kapustin.