Milano, Parigi, Londra, S. Pietroburgo

 di Roberta Pedrotti

Un altro concerto straordinario al Regio di Parma per il Festival Verdi 2015: Jader Bignamini, bacchetta imprescindibile in questo repertorio, dirige un intelligente percorso fra le esperienze internazionali del compositore, da Milano a Parigi, Londra e S. Pietroburgo. Michele Pertusi si conferma, con un'interpretazione al solito superlativa, uno dei migliori interpreti in lingua francese al mondo, affiancato come solista da Walter Fraccaro, subentrato al previsto Roberto Aronica. L'Orchestra Filarmonica Toscanini e il Coro del Regio preparato da Martino Faggiani si mostrano al massimo della forma.

PARMA, 27 ottobre 2015 - Se l'opera zoppica, i concerti del Festival 2015 veleggiano sicuri con il vento in poppa verso la stella polare del migliore dei Verdi possibili. Questa volta il capitano è Jader Bignamini, affiancato da Michele Pertusi in una rotta intelligentemente disegnata toccando le tappe principali del cammino europeo del compositore: si comincia con l'ultima pagina scritta per il teatro, le danze inserite nella versione parigina dell'Otello, giustapposte al primo titolo che Verdi adattò per la capitale francese, la Jerusalem tratta dai Lombardi alla prima crociata. Seguono, a chiudere la prima parte, la grandiosità e l'intimismo del Don Carlos: il coro d'apertura del quadro dell'Autodafé e il monologo di Philippe II. Dopo l'intervallo si riparte da Milano, con l'eclatante affermazione del Nabucco, per giungere a San Pietroburgo, con la prima versione della Forza del destino. Dalle rive dell'Arno a quelle della Senna anche Macbeth guadagnerà splendidi ballabili – forse i più belli del catalogo verdiano – e questi precederanno la chiusura del programma ufficiale con l'Inno delle nazioni. Brano, quest'ultimo, francamente poco bello ma altamente significativo, vuoi per la destinazione per l'Esposizione universale di Londra del 1862, parallela dunque alle attuali cerimonie di chiusura dell'Expo milanese, vuoi per la prima collaborazione fra Verdi e Boito, vuoi per un carattere europeo che traspare anche nell'insofferenza verso la commissione celebrativa (che differenza rispetto all'ironico distacco di Rossini nel Viaggio a Reims!) e che si traduce in prese di posizione politiche non innocue, come la scelta di rappresentare la Francia con la rivoluzionaria Marseilleise e l'Italia non con la Marcia reale (peraltro smaccato calco rossiniano) ma con quel Canto di Mameli e Novaro già emblema del movimento risorgimentale e dunque, a dispetto dei suoi detrattori, già eletto a inno nazionale da quello stesso Nume musicale talora invocato per una sostituzione.

Sul podio, a districare il groviglio di tanto peregrinare in musica, Jader Bignamini si conferma una delle prime bacchette del panorama attuale, un nome imprescindibile là dove si voglia proporre una rassegna verdiana d'alto livello. Lo dimostra anche nella retorica poco ispirata, ma di grande mestiere, dell'Inno, in cui dipana con chiarezza l'intrecciarsi dei temi nazionali, scandisce con la debita solennità il recitativo e l'aria, lascia intravedere le anticipazioni di Aida senza perdersi in un vuoto esercizio teleologico. Fornisce, soprattutto, il miglior contesto possibile per un Walter Fraccaro ancora assai sonoro e spavaldo negli acuti, ma non impeccabile per musicalità sofisticata né per una quadratura tecnica che gli eviti spiacevoli ricorsi a inflessioni nasali. Così la prova del cantante risulta più che altro funzionale a realizzare l'esempio di uno spirito ardente e demoniaco poi tutto sviluppato da podio e orchestra nell'aria di Don Alvaro che chiudeva il terzo atto della Forza del destino di S. Pietroburgo con una focalizzazione più stretta e romantica sul destino maledetto dei protagonisti rispetto allo sconsolato ma pulsante, e infine cristianamente composto, microcosmo della seconda versione.

Il contributo di Pertusi, viceversa, permette di gustare il senso profondo della rivisitazione francese dell'aia di Pagano (qui Roger) dei Lombardi, così come l'originale monologo del Re di Spagna nel Don Carlo. Nel primo caso la linea melodica pressoché invariata nella scena e nel cantabile (nuova, invece, la cabaletta, seppur stretta parente di quelle di Oberto e Silva) rende ancor più eclatante l'effetto dell'abbassamento di tonalità e della radicale riorchestrazione. Bignamini esalta il nuovo carattere francese e Michele Pertusi la canta come solo lui sa fare, con una nobiltà e una compenetrazione dell'idioma che supera quella di molti madrelingua, perché all'assimilazione perfetta e naturalissima unisce la cura analitica di chi è arrivato a questo linguaggio non per innata abitudine, ma per studio meticoloso.

Un discorso simile, se non ancora superiore, si può fare infatti per “Elle ne m'aime pas” in cui il rapporto fra significante e significato, fra nota e fonema raggiunge vertici difficilmente eguagliabili, basti per tutto il senso di scoramento e solitudine reso da “Si le roi dort, la trahison se trame” in cui il concetto astratto, in un'atmosfera ben più sinistra, sostituisce la personificazione della traduzione italiana “Se dorme il Prence, veglia il traditor”. Tale cura della parola è cura del senso intimo della frase, dell'articolazione del discorso, come traspare dalla ricerca dei colori quasi soffocati d'un mormorio nel dormiveglia che man mano, come la luce dell'alba, sembra farsi sempre più netto e lucido.

L'analisi cameristica del monologo di Philippe aveva trovato contraltare di forza eguale e contraria nella plasticità di “Ce jour hereux”, che Bignamini balza a dirigere quasi al volo, fra gli applausi del pubblico parmigiano e i primi rintocchi delle campane della cattedrale di Villadolid. Il quadro intero vibra di vita, di una spazialità che non è semplicemente scenografica: è profondamente drammatica. Sembra che nella marcia, nell'esultanza del popolo, nello sfilare dell'aristocrazia, nel passo sinistro del clero, nell'apparato del potere temporale e di quello spirituale, nel pubblico e nel privato fremano carne e sangue, e non con barocca ostentazione, ma con un'autenticità così disarmante per il suo essere prossima a ciascuno di noi, nella materia e nello spirito. I piani si intersecano, si giustappongono, sfumano l'uno nell'altro in una danza incalzante, proteiforme nella sua inconfondibile identità nella violenza e nell'eleganza, nello sfarzo, nella gioia e nel dolore. Tutto questo, semplicemente, è nella musica, Bignamini non sembra intenzionato a plasmare un affresco da demiurgo, ma a seguire il precetto manzoniano “il santo Vero mai non tradir”, dove Vero, cambiando solo due lettere, è semplicemente sovrapponibile a Verdi.

Parimenti, che i ballabili del Macbeth siano una meraviglia è dato risaputo, ma ascoltarli con una tale, franca, cura tecnica, con una precisione tutta al servizio di un fluidissimo moto perpetuo, così drammaticamente netto e definito, eppure sapientemente variegato, intimamente corroso da un gusto demoniaco che affonda le radici nel Robert le diable e protende la sua ombra sul tardo Romanticismo e le sue propaggini, ironica, viscosa tenebra, grottesco vertiginoso.

Meno drammaticamente indispensabili e, quindi, caratterizzati, i numeri di danza di Otello (inseriti nella scena dell'ambasceria veneziana del terzo atto, non, come erroneamente indicato da Giuseppe Martini nel programma di sala, nel secondo atto) risplendono di una vitalità irresistibile, di colori esuberanti di esotismo sgargiante ma non chiassoso, anzi, ricco di suggestioni non insensibili alla scuola russa, ma anche alla melodia di Bizet o a sensualità che saranno presto di Strauss.

La Sinfonia e “Gli arredi festivi” da Nabucco sono travolgenti, corruschi come si conviene nella perfetta gestione dei contrasti che ci restituisce l'irresistibile, anche brutale, novità del “musicista con l'elmetto”, ma anche l'intelligenza acuta e raffinata che sottintendeva già a questi successi solo apparentemente più viscerali. In breve: è chiaro che gli esiti più sofisticati del genio verdiano potranno essere altri, ma è altrettanto chiaro che Nabucco non può che essere opera di un compositore di classe superiore.

Il programma ufficiale sarebbe concluso: due brani per il basso, due per il tenore, due ballabili, una sinfonia, due grandi pagine corali. Ma un bis è d'obbligo e arriva, dopo essere stata evocata proprio in chiusura con l'Inno delle nazioni, Aida. Graditissima sorpresa che compensa la rinuncia al duetto fra Philippe II e l'Inquisiteur (interprete svanito prima d'essere annunciato) con la scelta di un bis grandioso, un intero quadro d'opera e coinvolge il coro, i due solisti lasciando anche all'orchestra l'occasione di mettersi nuovamente in luce negli ampi squarci dei ballabili. La scena del tempio di Vulcano rifulge di una bellezza che fa impallidire molte, anche blasonate, esecuzioni e costituisce la summa ideale, se non del concetto (anche se la prima egiziana è coerente con il fil-rouge internazionale), sicuramente della qualità del concerto. Il fraseggio è più fine di un arabesco orientale e compone un'unica arcata che sembra crescere saturandosi man mano degli aromi mistici dell'incenso, pervasa da un solenne senso del sacro e del mistero che si rigenera da se stesso, come un vero “Fuoco increato, eterno”, del proprio spirito “figlio e genitori”, ora sottilissimo, ora grandioso, quasi senza soluzione di continuità. Bignamini plasma il tempo e lo spazio, l'essenza verdiana, da par suo e ribadisce il valore di un'Orchestra Toscanini che in questa serata ha dato il meglio di sé, per esempio con prove davvero rilevati di legni e ottoni, con una plasticità ben complice di tanta bacchetta. Allo stesso modo il Coro del Regio si fa valere per qualità e devozione verdiana e, dopo aver dato voce al rapinoso affresco del Don Carlos e al bruciante incipit del Nabucco, traduce in puro suono, forte, sottile, maestoso, il senso ultimo e la suggestione del rito. Fraccaro, pure, si trova a suo agio nel coté guerriero di Radames e Pertusi dipana un altro suo capolavoro: chi potrebbe, infatti, dire, sulla carta, che il basso parmigiano abbia la voce giusta per Ramfis, che sia un basso profondo? Eppure chi, ascoltandolo, potrebbe immaginare un Sacerdote più autorevole, ispirato, più nobile e persuasivo? Dove trovare una più sottile e imperscrutabile incarnazione di un potere spirituale che, senza sporcarsi direttamente le mani in faccende temporali le tiene in realtà saldamente in pugno? Dove un fraseggio più verdiano, elemento imprescindibile di un quadro perfetto che ci lascia attoniti, entusiasti, con le mani arrossate e doloranti, la voce arrochita per gli applausi misti alle acclamazioni.

Unico difetto della serata, una partecipazione di pubblico troppo al di sotto di quanto il concerto avrebbe meritato. Quale ne sia il motivo, è certo che un gran lavoro attenda la nuova dirigenza del Regio e che concerti come quelli di questo Festival segnino la strada giusta.