I vespri fiamminghi

di Roberta Pedrotti

G. Donizetti

Le duc d'Albe

Jordi, Petean, Harnisch

direttore Paolo Carignani

Orchestra e coro della Vlaamse Opera

Vlaamse Opera, Gent 11 marzo 2012

CD Dynamic CDS 7665/1-2, 2013

Nel teatro lirico, Turandot (insieme con Lulu, se guardiamo al di là delle Alpi) è la regina delle opere incompiute, arenatasi in un travaglio creativo cui la morte dell'Autore pose un termine definitivo. Stessa sorte capitò all'Ernani di Bellini, mentre altre vicende biografiche fecero naufragare in stadi spesso appena embrionali una Figlia dell'aria (antefatto, fra l'altro, di Semiramide) e un Ugo re d'Italia per Rossini, Rochester e Re Lear per Verdi. Fra i grandi operisti italiani fra il XIX e i primi decenni del XX secolo, però, è il prolifico Donizetti colui che detiene il primato dei progetti accarezzati, vagheggiati, intrapresi, abbandonati o compiuti ma lasciati in un cassetto. Di questi il più celebre è forse Le duc d'Albe, la cui composizione fu sospesa, poi interrotta dal reciso rifiuto della primadonna designata, Rosine Stoltz, e infine definitivamente abbandonata ormai alle soglie della morte dell'autore. Fra queste traversie trovò spazio la lavorazione, anch'essa senza esito, dell'Ange de Nisida, poi confluita nella Favorite insieme con l'aria di Henry “Ange des cieux”, divenuta “Ange si pur” (ovvero “Spirto gentil”). Se Le duc d'Albe fosse andato in porto regolarmente, dunque, forse non avremmo oggi La favorite, o, meglio, non l'avremmo con tutta probabilità nella fisionomia che oggi conosciamo, giacché sarebbe apparso quantomeno stravagante – massime nel sistema produttivo parigino – presentare all'Opéra nel giro di pochi anni due opere con la medesima aria principale del tenore. Ma se Le duc d'Albe fosse andato in porto forse nemmeno Verdi avrebbe messo in musica Les vêpres siciliennes, o almeno avrebbe dovuto confrontarsi con l'importante precedente dell'illustre connazionale. Eugène Scribe, infatti, per la prima opera composta espressamente per Parigi dal Cigno di Busseto (non, dunque, un rifacimento com'era stata Jerusalem) rispolverò, con minime varianti nell'intreccio, i versi scritti per Donizetti, collocandoli dalla Fiandra sotto il giogo di Filippo II alla Sicilia medievale dominata dai francesi. Il primo atto, in particolare, se non fosse per i nomi propri, i riferimenti nazionali e la toponomastica, sarebbe del tutto identico e inevitabilmente l'ascolto si sovrappone alla memoria, confrontando le diverse letture d'un medesimo libretto a opera di due dei nostri massimi compositori. In questo gioco, che potrebbe parere ozioso, Donizetti non ceda mai il passo e, anzi conferma un'intelligenza drammatica acuta e avanzatissima. Le duc d'Albe, per quanto possiamo ascoltare, è un'opera di grande fascino, dai ritmi serrati e le atmosfere livide, che restituiscono, oltre che uno degli esiti estremi del grande istinto teatrale donizettiano, anche una visione essenziale e prosciugata del dramma storico à la Meyerbeer, senza sfarzi, spettacolarità e frivolezze, bensì tutto concentrato su una tragedia umana priva di speranza e di certezze manichee. Purtroppo nell'immaginario comune i pregi della partitura sono andati in parte diluiti, così come s'è sfumata la sua collocazione storica nel processo creativo della Favorite, a causa proprio del completamento che ne ha garantito una seppur limitata circolazione. Opera postuma e incompleta, infatti, costituì un buon affare per Giovannina Lucca, che l'acquistò e ne affidò il completamento a Matteo Salvi (coadiuvato da altri compositori, fra cui Ponchielli) permettendone l'andata in scena, finalmente, nel 1882. Il libretto fu strapazzato in una traduzione italiana che lo riduceva da quattro a tre atti e, giacché ormai La favorita era nota e stabilmente in repertorio, Salvi, con abile emulazione stilistica, scrisse per il protagonista una nuova aria, “Angelo casto e bel”, più donizettiana dello stesso Donizetti e subito amatissima dai tenori. Nel 1959 Schippers rimise mano al rifacimento senza ritoccare il libretto (che per non sovrapporsi ai più noti Vespri siciliani mutava Hélène ed Henry in Amelia e Marcello) ma ripristinando, fra l'altro, “Spirto gentil”. Nel 2012 la Vlaamse Opera di Anversa e Gent si è cimentata nella riproposta dell'opera di Donizetti, così legata alla storia locale, rappresentazione degli soprusi e aneliti evocati nel Don Carlo. Lo ha fatto con tutti i crismi e gli scrupoli del rigore filologico, facendo ascoltare finalmente l'opera in quattro atti con il testo originale francese, affidandosi all'edizione critica di Roger Parker e commissionando un nuovo completamento a Giorgio Battistelli. Questi non cerca una mise en abîme che renda difficile distinguere fra quanto effettivamente Donizetti scrisse e le pagine in cui interviene la penna del curatore postumo. Al contrario, al pari dei restauri che mirano non a ricostruire ciò che non c'è più ma a far ammirare cio che resta distinguendolo dagli interventi posteriori, Battistelli radicalizza la distanza del linguaggio e compone in uno stile declamatorio nettamente contemporaneo, e pur neutro. Mantiene la cifra cupa e asciutta del lavoro donizettiano ma marca anche la distanza. E alla fine, quel che ascoltiamo è non solo il capolavoro di Donizetti in tutto il suo disperato fascino, ma anche forse il miglior lavoro di Battistelli che ci sia capitato di conoscere, proprio per la sua capacità di servire musica e drammaturgia senza prevaricarla e conferendo comunque interesse anche a questo suo linguaggio modernamente intersecato e distinto rispetto all'originale. Paolo Carignani dirige con buon equilibrio, la sua non sarà una bacchetta leggiadra e latrice d'intuizioni illuminanti, ma serve efficacemente alla riuscita dell'operazione, alla continuità drammatica e all'atmosfera, scandendo puntualmente gli scarti fra Donizetti e Battistelli. Duttile e stilisticamente forbito il cast, di notevole livello soprattutto se si considera che la registrazione è un live riferito a un'unica recita. Ismael Jordi, Henry, è musicista intelligente, buon fraseggiatore, il colore giovanile e brillante calza alla perfezione al personaggio nell'eroismo, nell'amore e nella malinconia, mentre la tecnica gli consente di affrontare senza problemi la tessitura, sfumando o colorendo con gusto e perizia. Notevole anche George Petean, limpido baritono grand seigneur che sembra nato per cantare grandi ruoli seri donizettiani come quello del terribile e tormentato Duc d'Albe: davvero pregevole "En sein à la puissance" ("Ne' miei superbi gaudi", corrispettivo di "In braccio alle dovizie"), così come i duetti con Jordi. La natura lirica di Rachel Harnisch, Hélène, non si troverà perfettamente a proprio agio nell'aspra tessitura riservatale, ma, come poi farà Verdi, nemmeno Donizetti risparmia le difficoltà nell'iniziale “Au sein des mers”. La linea è comunque sempre elegante ed espressiva, il ruolo risolto con belle intenzioni, musicalità e trasporto. Rivisitando il libretto per Verdi, Scribe conferirà a Jean de Procida un rilievo che il suo gemello fiammingo Daniel non possedeva ancora, ma Igor Bakan lo serve comunque a dovere, così come s'inseriscono bene nello spettacolo Vladimir Baykov (Sandoval), Gijs Van der Linder (Carlos e Balbuena) e Stephan Adriaens (un tavernier).

Si segnala nel saggio, altrimenti al solito puntuale utile e ben informato, di Danilo Prefumo una svista sulla ripartizione in atti ( quattro in originale, ridotti a tre nei completamenti italiani di Schippers e Salvi, non cinque ridotti a quattro). Fatta salva questa imprecisione, un ottimo prodotto che colma un vuoto nella discografia donizettiana, rivelando per la prima volta la Grande Incompiuta in lingua originale, con i versi e la drammaturgia su cui il Bergamasco lavorò nei suoi ultimi anni.

Il libretto completo dal sito della Dynamic