La scelta del male

di Isabella Ferrara

Al Teatro Bellini di Napoli, uno spettacolo di Liberaimago per il testo e la regia di Fabio Pisano con Francesca Borriero, Roberto Ingenito, Claudio Boschi e le uggestioni sonore live di Francesco Santagata racconta la storia di Celeste Di Porto, giovane ebrea che si fece delatrice al soldo dei nazifascisti.

NAPOLI, 19 aprile 2022 - Celeste Di Porto la giovane ebrea del ghetto di Roma che diventò delatrice dei suoi correligionari; la Stella di Piazza Giudia che diventò la Pantera Nera, che con un cenno del capo o della mano, con un semplice saluto firmava la condanna a morte degli altri ebrei vendendoli ai nazisti. È questa la storia che ci raccontano il regista, gli attori, la musica e il canto, le luci e le ombre in questo spettacolo. Su una scena nera, attraverso il tempo, nella storia, nel buio di ricordi indelebili, che chi ha vissuto vorrebbe lasciar andare ma che continuano a tornare. Con un testo notevole e riuscite scelte sceniche, ci spostiamo nella vita di Celeste, la seguiamo da ragazza che vuole vivere, e vuole farlo non solo sopravvivendo ma prendendosi tutto quello che la giovinezza promette, oltre il male che la povertà impone, oltre il male ingiustificato che da ebrea è destinata a subire, senza un vero motivo. Diventa impietosa delatrice di ebrei, per salvare se stessa e la sua famiglia da morte certa, per arricchirsi ed affrancarsi dalla povertà e dalla miseria, perché si trovava “al fianco la morte, senza voler morire”. Seguiamo Celeste mentre usa la sua bellezza e la sua giovinezza piena di vita per scampare alla morte; quando vuole essere amata come donna; quando viene punita dal padre che si vergogna di lei; quando deve scappare a Napoli; quando subisce il processo che la condanna al carcere; quando si converte al cattolicesimo. Quando ancora non capisce quale male si stia punendo in lei, che da ebrea era già condannata; quando cerca di spiegarsi il bene, e capire se “era meglio morire da martiri”, se “è meglio una condanna a morire o a vivere”. Ma non troviamo un giudizio, o ne troviamo tanti; vediamo le ombre di una storia, e le luci che rischiarano solo alcuni momenti, quelli delle scelte. Abbiamo di fronte tutta la crudezza di una realtà, senza la carezza di un perdono o di un pentimento, perché viviamo solo la sua storia, in un racconto. Attraverso il tempo il regista ci fa spostare usando i corpi degli attori, le metamorfosi dei volti, dei gesti, i movimenti lenti o nervosi, o impauriti, o rassegnati.

E poi c’è la musica, accompagna Celeste, interrompe i tempi, sottolinea il dramma, distrae lo spettatore, catturandone l’attenzione e lo sguardo attraverso il musicista che in sala suona e canta, come se fosse il cantore delle gesta, improvvisatore di stornelli. La musica che sottolinea la vita, che vuole “parlare d’amore con voce sospirosa”; che parla di morte, con l’ironica “Maramao perché sei morto”; che canta di partigiani e libertà. La musica che per Celeste era desiderio di fuga dal male, simbolo di gioia, di libertà, di spensieratezza, di tutto quello che le era negato. Assistiamo ad un racconto dal passato, che tanto passato non sembra essere. Il ripetersi di numeri, di nomi, e di alcune frasi sembra quasi indicare lo sforzo mnemonico che deve impedire alla mente di dimenticare, seppure distratta dai giorni avvenire, azioni e conseguenze, bene e male, giustizia e giudizio, leggi e regole, quali indelebili testimonianze rese con la vita stessa.