Il ciliegio tornerà a fiorire

di Isabella Ferrara

Luci, colori e una bella prova di recitazione corale segnano il successo del testo di Čechov al teatro Bellini di Napoli.

NAPOLI, 24 maggio 2022 - Luci ed ombre. Ombre di noi stessi, ombre dei ricordi, di ciò che eravamo. Una piccola luce fioca si muove verso la scena e accende le prime parole, un sottile fumo si leva come se l’anima della casa e delle persone che ci vivevano si stesse risvegliando. Il tempo passato dell’opera di Čechov, così come il nostro, è tutto nei colori; quelli della scena scarna, perché pronta per l’immaginazione di ognuno di noi, è la stanza dei bambini che ci ospita. I colori essenziali dei costumi, il non colore dei pochi oggetti di scena, sedie e qualche valigia. Come a significare che arriviamo, siamo accolti e ci accomodiamo, ma non troppo perché poi si riparte, perché tutto finisce. Infatti finisce l’allegria di ritrovarsi; lascia il posto al rimpianto di essersi persi, che finendo, fa spazio ad uno scherzo, che a sua volta si esaurisce rapidamente fra sorrisi e risate, sostituito da lacrime di tristezza per un destino incerto o per una vita passata. Lacrime ben presto asciutte perché è arrivato il momento di ballare insieme e saltellare e cantare; solo fino a quando, però, qualche serio discorso politico, filosofico o esistenziale non spegne la musica. E la scena si svuota. Restano le luci, e le ombre, nostro ricordo o ricordo di noi, come una presenza di ciò che viene abbandonato ma non dimenticato, un senso di appartenenza più che di semplice possesso. È questo forse il Giardino dei ciliegi di Čechov, che Čechov stesso voleva. Un continuo cambio di registro e di tono, una vita riassunta in quattro atti, ma tutti d’un fiato; fedele al sentimento umano di qualsiasi nazionalità sia o da qualsiasi tempo arrivi. È il nostro ripeterci senza tempo.

Restiamo attaccati al nostro passato, come alla nostra ombra, anche se non lo viviamo più da tempo. Non siamo più gli stessi, eppure quello che eravamo ha il fascino del perduto. Bei ricordi e ricordi tristi sono fra le mura di una casa disabitata da anni, sono nelle radici di alberi che appartengono a quella terra come noi stessi, anche se siamo partiti, se siamo cambiati. Forse quello ci ferisce più di tutto, aver tradito il passato smettendo di viverci dentro, aver lasciato la casa, la terra, gli alberi, i ricordi, chiudendo tutto in un baule vecchio di cent’anni. Ed ora che siamo tornati e lo respiriamo e lo vediamo negli oggetti e nei luoghi, nei colori e negli odori, lo rivogliamo indietro. Non possono negarcelo. La voce di chi non c'è più là fuori ci ricorda che siamo ancora vivi, nel presente, e che possiamo esserlo nel futuro, se solo ci muoviamo in avanti. Come il ciliegio che tornerà a fiorire.

Lo spettacolo di Serra è terribilmente semplice tanto da essere imprevedibile, oppure è tanto complicato da non poterlo prevedere. Appare misterioso in alcuni passaggi simbolici, ci sono in scena le nostre gabbie intrecciate che ci portiamo addosso per la vita, tanto facili da districare agli occhi altrui; oppure è solo un gioco di luci sulle persone, e sui sentimenti. Gli attori, Arianna Aloi (Duniaša), Andrea Bartolomeo (Jaša), Massimiliano Donato (Epichodov), Chiara Michelini (Carlotta), Felice Montervino (Trofimov), Paolo Musio (Gaiev), Massimiliano Poli (Simeonov-Piščik), Miriam Russo (Varja), Paola Senatore (Anja), Marco Sgrosso (Lopachin), Valentina Sperlì (Ljubov'), Bruno Stori (Firs), sono tutti ugualmente bravi, un coro di vite in disaccordo, eppure armoniose nei gesti, nella recitazione impeccabile, come un corpo solo dalle infinite movenze. Le luci sono e svelano la magia e poi se la riprendono, restando come un sogno raccontato, che svanisce con la luce della fine dello spettacolo e con gli applausi.