È tutta colpa della luna..

 di Pietro Gandetto

In scena al Teatro Elfo Puccini, l’Otello di Shakespeare con la regia di De Capitani e Lisa Ferlazzo Natoli. Una produzione che abbandona la tradizione e guarda al presente.

Milano, 10 novembre 2016.  L’intento è chiaro: proporre un Otello nuovo, attuale e contemporaneo spogliato dalla "tradizione", per dare risalto al nucleo drammatico del testo.  Idea originale e ambiziosa, ma che funziona solo in parte. Va bene abbandonare il passato, ma a condizione che si abbia qualcosa di preciso con cui sostituirlo.

I temi cardine affrontati, quello xenofobo-razziale e quello della violenza sulle donne, sono sfiorati dalla regia di De Capitani /Ferlazzo-Natoli senza guizzi di originalità e particolare incisività narrativa. Sul primo versante, Otello diventa il bersaglio su cui si scaglia la turpitudine della società contemporanea e su cui si sfoga il moralismo verso l’“altro”, lo straniero. Peccato, però, che ciò si realizzi con un’aggressività verbale un po’ gratuita: per esempio l’uso e l’abuso della parola “negro” non ha ragion d’essere (sì, abbiamo capito che è volutamente adoperata da Jago per esprimere il suo disprezzo verso il Moro, ma gli echi salviniani di quest’odio fanno rabbrividire di imbarazzo più che indurre a riflettere sul tema). Dal punto di vista della misoginia, diciamo che Shakespeare ha già fatto tanto. Desdemona muore com’è naturale che sia. E tutto quello che vediamo in più, ossia quell’abbondare di insulti, schiaffi, sesso e violenza, alla fine stanca. Non si capisce perché tutti i personaggi femminili vengano apostrofati dall’inizio alla fine come troie e puttane. Un’idea registica sicuramente originale, ma che forse avrebbe potuto essere declinata attraverso un’aggressività più psicologica e sottile (come quella del riuscitissimo Jago), piuttosto che verbale e fisica.

La  traduzione di Ferdinando Bruni ha il pregio di utilizzare un linguaggio contemporaneo, vicino al parlato più che al declamato; e ciò è sicuramente funzionale all’attualizzazione di Otello e del messaggio sotteso, ma comporta un’inevitabile caduta di tensione in alcune scene, non adeguatamente sostenute. Le continue battute, l'alternarsi del comico e del tragico disorientano lo spettatore che non sa più come porsi rispetto a un pot-pourri di linguaggi, registri e atmosfere altalentanti. Mentre Desdemona sta morendo tragicamente strozzata, perché Otello deve fare ironia da cabaret su Emilia?

Alcune scene come quella della tempesta o quella della canzone del salice funzionano, di contro, a meraviglia.  Le raffinate scenografie di Carlo Sala, composte da drappi di cellofan e da preziosi sipari dorati, ora fungono da vele della nave, ora da diaframma che si frappone tra il mondo reale e quello onirico, tra la razionalità e l’impulsività di Otello. Il merito va anche alle validissime musiche della compositrice Silvia Colasanti, idonee ad amplificare l’introspezione psicologica condotta dalla regia di De Capitani/Ferlazzo pur richiamando motivi, atmosfere e tinte tipiche dell’originale inglese. La canzone del salice non è quella dell’Otello rossiniano, certo, ma utilizza un linguaggio contemporaneo che rielabora temi del '500, mischiandone e sfumando con eleganza le antiche armonie. Le stesse note sono suonate dall'organetto di un clown, alter ego di Desdemona, come presagio di future sventure.

Nel cast, nessuno incanta, tranne lo Jago di Federico Vanni e il Cassio di Angelo di Genio.  L'infido alfiere è l’unico personaggio della produzione in cui la destrutturazione voluta dai registi funziona davvero. Jago è davvero uno di noi. Mai declamatorio, come tutti, certo, ma sarcastico e naturale, incisivo, schietto. È un untore di emozioni e pensieri negativi, mostra al pubblico il nero dell’animo umano senza nulla di più e nulla di meno. Angelo di Genio è un meraviglioso Cassio, passionale, sinceramente sprezzante di Bianca, che deride, e anch'egli interessato, in fondo, al proprio tornaconto. L’indubbia avvenenza dell’attore non sminuisce l’efficacia drammatica del personaggio. De Capitani tratteggia un Otello sanguigno e avvinto dalla pervicace volontà di distruggere l'oggetto della sua disperazione. Camilla Semino Favro è un'eloquente Desdemona nelle scene più truci, ma poco vibrante nel resto dello spettacolo.

In conclusione, un’analisi diversa, e sicuramente interessante, ma incapace di far scattare quella reazione emotiva che ci si aspetta da Otello. Lo spettacolo è accompagnato da calorosi consensi, senza picchi di euforia, in una sala gremita di giovani, come ultimamente e fortunatamente capita nei maggiori teatri milanesi.