L’arte e il suo contrario

di Michele Olivieri

Con la coreografia di Mauro Bigonzetti, è andata in scena dopo i rinvii dovuti all’emergenza sanitaria la prima mondiale della composizione di Fabio Vacchi su libretto di Emmanuelle de Villepin tratto dal romanzo La ragazza che non voleva morire. La storia ci racconta della giovane Madina, kamikaze non per sua volontà, la quale preferisce non uccidere e non morire. Terrore, distruzione, violenza, estremismi, ideologie sono i fondamenti di quest’opera particolarmente complessa che lascia trasparire il desiderio di ricamarsi un destino differente da quello già deciso da altri e ci impone di riflettere se il teatro musicale possa essere o meno strumento adatto a raggiungere la sensibilizzazione su temi così forti e drammatici di assoluta attualità.

MILANO 12 ottobre 2021 – Le vicende belliche nella danza possono assumere i tratti di una tragedia quasi senza tempo. Eppure, fatti noti e riportati ampiamente dalla stampa, presentano in Madina un quadro maggiormente sfaccettato. La coreografia rivela un orientamento del significato in due direzioni principali e innegabilmente divergenti: da un lato un evento che tende a dipingere la disciplina contemporanea come forma narrativa dai contenuti forti, dall’altro una concezione morale del male in rapporto all'arte. L’intreccio tra musica e danza, canto lirico (intensi il mezzosoprano Anna-Doris Capitelli e il tenore Chuan Wang), videoproiezioni (Carlo Cerri, Alessandro Grisendi, Marco Noviello) e il recitato (Fabrizio Falco) produce una molteplicità di linguaggi qui non sempre complementari, talora dissonanti. Le danze di Bigonzetti rappresentano a ben vedere lo spunto per una riflessione. Rimane confermata la professionalità dei due interpreti principali, l’assoluta destrezza del Corpo di Ballo, nonché del Coro (registrato) diretto da Alberto Malazzi, dell’Orchestra e del direttore Michele Gamba. Quest’ultimo ha concertato con compattezza la partitura di Fabio Vacchi, compito non semplice sia nel rapporto con la danza sia nel succedersi di scene d'azione o visionarie.

Madina viene percepita come uno studio che prende le mosse dalla riflessione sul teatro musicale strumento adatto o meno a raggiungere la sensibilizzazione su temi così forti e drammatici. Bigonzetti crea delle distinzioni, mostrando coscienza nei confronti della complessità dell’opera, invitando lo spettatore a non trarre conseguenze univoche e affrettate dalla visione. Se non ci viene proposta una soluzione, sarebbe incauto ignorare il riscontro ricevuto in termini di attesa e di successo. Ci si domanda, però, cosa avrà prodotto sulla coscienza degli spettatori? Avrà generato sensi di colpa o condizionato futuri gesti e comportamenti?

La danza della Albano è timbrata e squillante, l’esecuzione è variegata permettendo di assaporare l’equilibrio come profondità di carattere. Ritroviamo la sua malinconia nella lancinante elegia. Non solo si muove, ma partecipa “sulla punta dei piedi” alla duttile tessitura coreografica come strumento di oppressione, oltre che di tentata persuasione. Bigonzetti sicuramente avrà insegnato punto per punto la giusta inflessione esegetica, ma lei poi ha messo del suo, interiorizzando il ruolo con accenti attoriali. Tanto da essere Madina e non l’interprete di Madina con il gesto, i coloriti dell’espressività, le inflessioni del movimento, le intensità, gli adagi e la tensione della sua presenza. Roberto Bolle, dal canto suo, appare nella raggiunta piena maturità artistica in un ruolo che si discosta dal carico d’enfasi dell’accademismo classico a favore di una eloquenza toccante. Modula la fluidità dei passi, asseconda al meglio le intenzioni coreografiche, dà tinta al senso del personaggio. Il risultato complessivo è egregio, anche se non sempre tutti gli esecutori sono portati ad esprimersi con uno stile veramente nuovo e singolare.

Il fuoco è l’elemento in maggior misura presente, idoneo a generare trasformazioni, essendo il principale artefice di tutte le metamorfosi che avvengono in scena, comprese quelle estetiche (la scena corale, con i danzatori seminudi avvolti dalle fiamme, risulta particolarmente suggestiva, con colori caravaggeschi, in cui la mano del coreografo romano si riconosce appieno). Abbiamo così nel finale una produzione ben oliata, a tratti troppo oscura e glaciale (scene e luci di Carlo Cerri, costumi di Maurizio Millenotti in collaborazione a Irene Monti), con un Bigonzetti che sa infondere spontaneità ai lati lirici del libretto, accompagnando gli artisti in scena con cura. L’intesa, però, tra danzatore e partitura funziona prevalentemente solo sotto il profilo formale. Il maestro Vacchi ha la capacità di immergerci negli ambienti sonori più differenti, di addentrarsi nella cupezza di richiami umani martoriati e di rendere mescolanze e contrasti in rapporti fra elementi sonori e melodici che mantengono, pure, la loro indipendenza. In generale allo spettacolo non mancano slancio, calore, pathos anche se qualche rifinitura in più nell'allestimento non avrebbe guastato l’analisi del tema portante. Non un qualcosa di antico, sentimentalmente storico eppure lontano, bensì un tema che ci riguarda da vicino, che ci tocca, ci sfiora, ci appartiene.