Legami sconnessi

 di Andrea R. G. Pedrotti

Buona qualità musicale e tersicorea per il secondo balletto della stagione della Fondazione Arena (il primo in realtà, visto lo sciopero di dicembre), che tuttavia non pare perfettamente riuscita e consequenziale sotto i profili drammaturgico e semantico.

VERONA 18 febbraio 2016 - “Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes”, ossia “Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti”. Così nel XII secolo Giovanni di Salisbury citava il suo maestro. I giganti sulle cui spalle dobbiamo poggiarci per aver facoltà di guardare oltre, sono coloro che ci hanno preceduti, i quali sovente non erano pienamente coscienti della loro grandezza, scevri della schiavitù del proprio ego, dai quali traiamo la nozione, indispensabile allo sviluppo di un pensiero nuovo, che deve assommarsi al gigante dell'umiltà e dell'esperienza nel proprio vissuto, inteso in ogni sua sfaccettatura. Nessuno ha mai detto che tutto questo, che lo studio, l'applicazione, le fatiche portino con certezza a una realizzazione personale. Questa, tuttavia, è la vita d'un ballerino, scelta fin dalla più tenera infanzia, irta di sofferenze e un sacrificio, che, nella maggior parte dei casi, sarà vano.

La danza non è una forma d'arte che si può improvvisare, né leggere a prima vista; la danza necessita di rigore, applicazione e disciplina, altrimenti nulla sarà possibile. Il balletto dovrebbe essere esempio simbolico di ciò che dovrebbero essere tutte le discipline, nessuna esclusa.

Per questo secondo balletto della stagione della Fondazione Arena (il primo in realtà, visto lo sciopero di dicembre) avevamo la partecipazione di due primi ballerini ospiti (Dongting Xing e Dane Holland) e numerosi aggiunti. Questo, ovviamente, aumenta la difficoltà nella realizzazione, poiché non è facile cementificare un gruppo di solo nove stabili con aggiunti variabili, tuttavia questa è un'operazione non nuova a Verona e gli stabili hanno saputo fondersi senza problemi con i colleghi.

La prima parte ha visto, per la quasi totalità, il solo accompagnamento di violino e pianoforte, posti, con bella scelta visiva, sul lato destro della platea. I primi tre brani (Preludio e Allegro di Gaetano Pugnani e Fritz Kreisler; Danze rumene nn. 3, 1, 2, 6 di Bela Bartók; Sarabanda e Allegro dalla Partita in re minore di Johann Sebastian Bach) sono tutti affidati a danzatori della Fondazione e si susseguono un passo a cinque e un passo a tre, sino all'incedere dei due primi ballerini ospiti in un passo a due (con le Variazioni di bravura sul tema di Mosé in Egitto di Niccolò Paganini). Chiusura della prima parte con l'Adagio per archi di Samuel Barber “Per Sonia”. In tutta la prova notiamo con piacere la bella prestazione delle maestranze, con i danzatori in buona forma, particolarmente ligi agli ordini del coreografo, Ivan Cavallari. L'idea insiste sulla presenza di continua di corde (Strings, appunto), che vengono tese dai protagonisti per tutta la durata di questa prima parte. Presumibilmente volevano indicare le tensioni e il tira-molla che si manifesta in tutte le relazioni, specialmente in quelle più intense. Il passare da un gruppo più numeroso fino alla coppia e, infine, a una dedica, può indicare drammaturgicamente la scelta del programma. I colori di fondo tendono perennemente a tinte scure e la scena, eccezion fatta per le corde, è completamente spoglia. I costumi dei ballerini (pressoché adamitici quelli degli uomini, più coprenti quelli delle donne), vanno schiarendosi nella tinta, man mano che il gioco relazionale e di rapporti giocato “sulla corda”, prosegue. I passi risultano, per scelta del coreografo, meno fluidi ed eleganti, rispetto a quelli che eravamo abituati a vedere da parte del corpo di ballo dell'Arena. Riteniamo sia stata una precisa indicazione, al fine di sottolineare l'intensità della situazione, tuttavia notiamo una certa incostanza stilistica, specialmente nel brano di Paganini, durante il quale la linea musicale prevale su quella ballata, facendo scostare spesso l'attenzione verso il pianista (Pietro Salvaggio) e la violinista (Anna Tifu). Entrambi si dimostrano ampiamente all'altezza del compito, specialmente Anna Tifu, che si avventura spesso in ardite dinamiche e cambi di intensità e colori, tanto difficoltosi, quanto felici nella resa esecutiva.

Seconda parte particolarmente scollata dalla prima: si passa, infatti, dalla bicromia bianco\nero a una netta prevalenza del rosso. La scelta resta notevolmente spoglia, con quinte a vista e il solo vagare di grandi scatoloni bianchi. Pregevoli alcune formazioni, mentre notiamo l'insistita presenza su alcuni pianissimi orchestrali di figure comprendenti degli atterraggi che rendevano particolarmente sonoro il rumore dei passi degli artisti sul legno del palco del Filarmonico. In questa seconda parte (interamente dedicata al Concerto per violino e orchestra op. 61 in re maggiore di Ludwig van Beethoven) si perde il legame, non solo visivo, con la prima parte. L'abilità e professionalità dei ballerini rende il tutto gradevole, ma sovente fine a se stesso.

Come già nel concerto sinfonico della scorsa settimana, notiamo la bella e precisa concertazione del m° Victor Hugo Toro, il quale palesa ancor maggiore sicurezza dal podio dell'orchestra veronese, probabilmente per i giorni di prove concessi al direttore protagonista degli ultimi due appuntamenti della Fondazione. Molto brava, ancora una volta e allo stesso modo, anche Anna Tifu.

L'esito complessivo della serata ci pare positivo, anche se la coreografia di Ivan Cavallari è parsa piuttosto scevra di significati e l'atmosfera avara di strutture complesse sempre nella semantica. L'idea generale appare nell'orbita del post-moderno, che tende spesso a una ricerca troppo vaga dell'introspezione, a differenza di altre espressioni classiche, neo-classiche o contemporanee.

foto Ennevi