Un’Amina nel bezirk di…

 di Giuseppe Guggino

Vincenzo Bellini

La sonnambula

Durlovski, Botelho, Capuano

direttore Gabriele Ferro

regia Jossi Wieler & Sergio Morabito

scene e costumi Anna Viebrock

Stuttgart, Oper Stuttgart, giugno 2013

1DVD Euroarts – Unitel Classica 2014

Al collaudato tandem Jossi Wieler & Sergio Morabito – alla guida dell’Oper Stuttgart dal 2011 – si deve questa bellissima produzione della Sonnambula che proprio da Stoccarda proviene, dove fu allestita nel 2012 e poi ripresa l’anno seguente, per la produzione del dvd live; perfettamente ignorati in Italia, eccezion fatta per un allestimento (anch’esso geniale) di Norma ripreso lo scorso anno al Massimo di Palermo, il loro teatro, di impostazione marcatamente tedesca, si distingue dal tanto deprecato filone per l’attenzione posta al testo (sia teatrale che musicale) e per la coerenza mantenuta, nonostante le audaci reinvenzioni drammaturgiche sovente operate. Nella Sonnambula, sarà inutile quindi aspettarsi monti, valli, fiumi e mulini svizzeri perché Anna Viebrock ci porta fin dall’inizio dentro uno di quegli edifici-casermone perfetti esemplari dell’edilizia popolare in un bezirk della DDR (manca solamente il ritratto di Honecker); lo squallore regna imperante, tratteggiato con cura da cinema neorealista, dalle scrostature di intonaco, alla carta da parati scollata, alle cassette della posta sulla destra, sul fondo la scala, una finestra sul lago, ai lati le porte di accesso agli appartamenti e, nello spazio “condominiale” centrale delle panche da mensa. Lisa diventa una sorta di Gradisca felliniana, adusa a mollare ceffoni ad ogni avance di Alessio e, salvo la ri-ambientazione, tutto procede normalmente fino all’aria del Conte Rodolfo; al successivo racconto del fantasma si abbassano le luci (a rischiarare la scena rimangono due neon) e le panche del casermone vengono smontate, c’è un cambio di atmosfera che lo spettatore non coglie del tutto (capirà soltanto a fine dell’opera) e la narrazione procede normalmente con il piccolo dettaglio di una figura sinistra (la figurante Antje Albruschat) che si aggira a fine del duettino Amina – Elvino, ed è con lo stesso abitino a quadri della figura spettrale che ritroveremo Amina nella stanza del Conte; soltanto dopo l’aria di Amina, alle parole del Conte “De' suoi diletti in seno / Ella si dèsti” ritornano le panche e le luci del primo atto, e ritroviamo i personaggi nella stessa identica posizione: la vita è sogno. Se dal punto di vista drammaturgico il confine tra realtà e sogno è sempre labile, la pluripremiata ditta Morabito-Wieler non ha alcun dubbio sulla recitazione: il taglio è iper realistico e impressiona davvero la cura maniacale, viscontiana, di ogni dettaglio. Le ragioni musicali sono sempre in primo piano, così i vocalizzi dell’ultimo tempo della Cavatina d’Amina altro non sono che i fastidi per una zip dell’abito da sposa che stenta a chiudersi e via dicendo. In “Ah! Non credea mirarti” cantato nella semioscurità della dimensione del sogno colpisce l’illuminazione cangiante proveniente dalle porte degli appartamenti:si intuisce la presenza di tanti televisori perennemente accesi, l’atmosfera perfetta per un popolo di creduloni negli anni ’80. Per quanti dettagli si possano raccontare, è una di quelle regie la cui intelligenza non può essere resa a parole, va guardata, giacché la regia video di Marcus Richardt consente di farlo, cogliendo forse anche meglio i dettagli che potrebbero sfuggire in teatro.

Purtroppo alla parte visiva non corrisponde una parte musicale altrettanto felice. Gabriele Ferro (già confermato da Wieler e Morabito per i futuri Puritani che proseguiranno il ciclo belliniano) ha belle intensioni musicali, cerca di delineare un Bellini a tinte pastello ma talvolta, complice un gesto poco efficace, e qualche tempo eccessivamente dilatato (“A fosco cielo, a notte bruna”) la precisione di insieme non è perfetta, sebbene i complessi dell’opera di Stoccarda siano ragguardevoli. L’edizione è assolutamente integrale e prevede anche l’assolo di trombe nell’aria di Elvino (ripristinato dall’edizione critica), sebbene le tonalità siano quelle tradizionalmente abbassate; e non potrebbe essere altrimenti con l’Elvino di Luciano Botelho, dalla vocalità a piramide che deve ricorrere anche ad una maldestra riscrittura per evitare un Do acuto (“io lo leggo ne’ tuoi sguardi / del tuo vezzo lusinghier”) e pasticciare il seguente. Altrettanto dimenticabile, o peggio rammentabile tra le esperienze d’ascolto che segnano, è l’Amina di Ana Durlovski, mentre il Conte Rodolfo di Enzo Capuano, sebbene lungi dall’entusiasmare, riporta il canto verso binari più tradizionali. Beneficiata di entrambe le ariette (con cadenza e ripetizione) è Catriona Smith e – ascoltandole – si rischia di rivolgere un pensiero al maestro Gavazzeni; affidabile è invece Helene Schneiderman come Teresa.