Inghiottiti dall'abisso

 di Roberta Pedrotti

A. Berg

Wozzeck

Goerne, Grigorian, Siegel, Larsen, Daszak, Peter

Vladimir Jurowski, direttore

William Kentridge, regia

Wiener Philharmoniker

Konzervereinigung Wiener Staatsopernchor

Salzburger Festspiele und Theater Kinderchor

Salzburger Festspiele, agosto 2017

DVD e BD Unitel/ Harmonia mundi HMD 9809053.54, 2018

Una passerella sottile e precaria sale e scende, fa il giro del palcoscenico, s'appoggia a una costruzione fatiscente, lambisce cubicoli, piattaforme, un armadio. Galleggia appena in una superficie che è come uno schermo di immagini cangianti, uno stagno viscoso in cui si riflette la realtà, deformandosi e cambiando di continuo.

Sulle prime note dell'opera è Wozzeck stesso ad azionare un proiettore al servizio del Capitano e a innescare il dilagare di figure e paesaggi che man mano inghiotte tutta la scena, tutta l'azione, tutta la realtà come le onde del lago dove il protagonista scompare dopo avervi gettato il cadavere di Marie e l'arma del delitto. Arma che non vediamo, che non esiste, ché di oggetti, al di là della giostra di fondali e animazioni che costituisce il mondo di questo Wozzeck, quasi non se ne vedono. Sembrano, però, oggetti molti degli altri personaggi: figure grottesche che si muovono come marionette, che sembrano uscite da un film espressionista o da un dipinto di Grosz o Dix e pertanto far parte nell'immaginario delle visioni scenografiche. Perfino il bimbo non è un bimbo vero, ma un pinocchio ricavato da miseri oggetti quotidiani: una fiaschetta e una maschera antigas a comporre la testolina, il corpicino mosso con maestria da una crocerossina.

Prende forma come un incubo, un labirinto folle di libere associazioni mentali questo Wozzeck illustrato da William Kentridge, che torna così all'opera di Alban Berg dopo la fortunata Lulu vista a New York [leggi la recensione] e Roma [leggi la recensione].

Prende forma come a materializzare la concertazione di Vladimir Jurowski, quasi spettrale nella sua analisi chirurgica, cristallino e tagliente nel restituire lo scheletro di forme astratte antiche, di suite, di variazioni, rondò, passacaglie, forma sonata, scherzo, fuga... L'eco classica e barocca diviene la spietata architettura del labirinto sbalzato da Jurowski in colori traslucidi, lasciando intendere tutti i piani della costruzione, ma anche condensandosi in un'oscurità vertiginosa, nel giostrare abilissimo degli spessori e delle potenzialità dinamiche dei Wiener Philharmoniker.

Al centro di queste acque insidiose, trasparenti e oscure, mutevoli, labirintiche ma regolate da una loro inesorabile logica interna, si muovono, annaspando per non essere inghiottiti, due sconfitti: Wozzeck e Marie. Lui è Matthias Goerne, e sembra uscito da un romanzo di Svevo per il suo sconfortante subire la vita, per il suo essere vissuto anziché vivere. Solo che non si tratta di un piccolo borghese passivo, ma dell'ultimo degli umili, di un miserabile schiacciato da un sistema tanto grottesco da apparire filtrato dai suoi occhi come un delirante girone infernale. Il baritono tedesco sa fare della sconfitta una poesia ricca di nuance, senza mai scadere nella monotonia o in una sorta di sciapa apatia: anzi, sa rendere ancor più tragico quell'omicidio a lungo balenato nella mente e pure commesso quasi per caso, quasi per fato, lasciando cadere Marie senza nemmeno un reale coltello a sfiorarle il collo. E in lei, pure, affascina e angoscia la stanchezza inesorabile con cui trascina la sua vita di peccatrice senza colpa, per istinto e non per malizia, di madre e donna invecchiata anzitempo ma ancora animata da quel vago, incomprensibile, inafferrabile anelito di vita che balena nella bella vocalità lucente di Asmik Grigorian e nella sua intelligenza d'artista.

Attorno a loro caricature grottesche sembrano staccarsi dalle proiezioni di Kentridge: Gerhard Siegel un capitano tronfio quanto innocuo; Jens Larsen, un dottore che ricorda Kenneth Mars, indimenticato caratterista per Mel Brooks e Woody Allen; John Daszak, boriosa marionetta di Tamburmaggiore; Mauro Peter, Andres in figurina di bonario giovanottone ottimista nonostante le ferite di guerra; Heinz Göhrig, folle dalla perturbante difformità; Frances Pappas, Margret aspra e quasi maligna; Tobias Schabel e Huw Montague Rendall alienati apprendisti.

Lodi anche per i musicisti in scena, per il coro e per le eccellenti voci bianche che, fuori scena, danno vita all'agghiacciante epilogo.

Di buona qualità la realizzazione tecnica, con la regia di Tiziano Mancini impegnata nel rendere il colpo d'occhio complessivo e il dettaglio più minuto.