Il lutto si addice a Orphée

 di Roberta Pedrotti

C.W. Gluck

Orphée et Euridice

Flórez, Karg, Said

direttore Michele Mariotti

regia Hofesh Shechter & John Fulljames

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, maestro del coro Bruno Casoni

Hofesh Shechter Company

registrato al Teatro alla Scala di Milano il 14 e il 17 marzo 2019

DVD Clasart Classic - Belvedere, 2019

leggi la recensione dello spattacolo dal vivo:Milano, Orphée et Eurydice, 28/02/2018

Già con Werther, e sempre con Mariotti sul podio, Juan Diego Florez aveva avuto modo di esprimere la sua inclinazione allo spleen nelle sfumature del canto francese. Questo ritorno all'Orphée di Gluck, già inciso per la Decca con la bacchetta di Jesus Lopez Cobos, la conferma, grazie anche a un allestimento, proveniente dal Covent Garden e registrato qui nella ripresa scaligera del 2018, che fa del mito una dolente meditazione, nel viaggio di Orfeo agli inferi una metafora dell'elaborazione del lutto. L'opera si apre e si chiude con la pira funebre di Euridice, o, meglio, di un suo simulacro che, alla fine, Orphée riesce a lasciar andare, dopo aver tentato anche di seguirla dandosi fuoco a sua volta dopo l'aria “J'ai perdu mon Euridice”. Amore, dio androgino scintillante nel suo tailleur d'oro, è signore del mondo, ma non come miracoloso deus ex machina, ma come custode del sacro ciclo della vita e della morte che esplode in un moto continuo di danza. Amore è anche musa e ispirazione dell'arte, perché Orphée è musico, è artista paralizzato dal dolore, tant'è vero che la scena si muove tutta in verticale intorno all'orchestra che, collocata al centro del palco, s'innalza o s'inabissa ciclicamente nel corso dello spettacolo. Dal vivo questa disposizione mobile degli strumenti può aver creato qualche difficoltà nel bilanciamento acustico, che per fortuna il DVD contribuisce a riequilibrare, a tutto vantaggio della lettura di Michele Mariotti, che aderisce al tono cupo dello spettacolo, a una visione dura e indifferente dei ballabili conclusivi, celebrazione di una vitalità che agli occhi del vedovo Orphée appare estranea e spettrale. Il suo neoclassicismo si allontana con decisione dal meraviglioso trionfante delle scene parigine per cui l'Orphée fu riadattato, cerca trasparenze fra le rovine di Piranesi o “all'ombre dei cipressi e dentro l'urne”. È lì che si muove anche Florez, lontano dal tono aulico dell'haute-contre, dell'acutissimo tenore francese della tragédie-lyrique. Cerca, invece, una sua cifra malinconica, estenuata, consumata dal male di vivere, in cui la tessitura acuta sia tensione più che iperurania aristocrazia, coerentemente con il tempo immobile della paralisi artistica e dell'elaborazione del lutto che è la chiave di questa produzione. Così, Christiane Karg non può che apparire come un'Euridice diafana ed evanescente, un'evocazione della memoria lacerata più che un personaggio vero e proprio, mentre acquista spessore l'Amour di Fatma Said, che realizza il felice paradosso di rendere proprio il personaggio allegorico il più vivido e concreto, con una musicalità cristallina ed effervescente, un fraseggio sapido, una personalità intrigante e un'ottima padronanza idiomatica.

La regia video di Tiziano Mancini valorizza assai bene luci e spazi scenici; nelle note di ccopertina (ovviamente non in italiano), Emilio Sala inquadra a dovere le caratteristiche della versione parigina dell'opera (1774), qui proposta, rispetto a quella viennese (1762), segnalando il valore drammaturgico del passaggio del protagonista da contralto castrato a tenore haute-contre, dell'incremento delle danze, della rielaborazione di alcuni profili melodici o delle varianti nell'orchestrazione.