Il profano e il sacro

 di Stefano Ceccarelli

Ogni tanto un po’ di musica barocca fa bene. Se poi è l’Accademia Barocca di Santa Cecilia a eseguirla, la qualità è assicurata. Federico Maria Sardelli, assai versato in questo repertorio, coniuga in sé la professione di esecutore e di filologo. Proprio la filologia, anzi, l’ha reso così sensibile al dato performativo di un genere di musica, quella barocca, di non facile approccio per il pubblico odierno, eppur così affascinante e, paradossalmente, così brillantemente immediata. Sardelli sceglie un concerto monografico su Gianbattista Lulli, una Soirée Lully appunto – quel Lulli, naturalizzatosi Jean-Baptiste Lully, compositore celeberrimo nel XVII secolo la cui eco fu fortissima anche nel secolo successivo. La suite da Le Bourgeois gentilhomme LW 43 e il Te Deum LW 55 sono le opere scelte dal Sardelli, che per qualche ora ci traporta negli splendori della corte di Luigi XIV.

ROMA, 5 febbraio 2016 – Il maggior pregio di Federico Maria Sardelli – oltre, s’intende, al natural gusto per la musica barocca – è quello di essere musicista e filologo al contempo. Inutile star a ricordare l’importanza dell’approccio filologico a una tradizione musicale, quella barocca, di cui stiamo solo ora realmente valutando l’enormità della produzione, molta di altissima qualità. In tal senso, una Soirée Lully è una manna dal cielo: non si hanno certo molte occasioni per ascoltare musica di Jean-Baptiste. Sardelli non manca di raccontarci, ad inizio di concerto – brevemente, certo, ma non senza un talento narrativo e al contempo pittorico –, la vicenda di Giambattista, un caso straordinario nella storia della musica. Saltimbanco fiorentino, fu venduto dai genitori per diventare il conversatore italiano della duchessa di Montpensier; di lì lo vediamo destreggiarsi nelle corti più chic fino a diventar intimo del futuro Re Sole, tanto da ballarvi assieme. Anzi: Luigi XIV lo fece diventare il re (anche giuridicamente) della musica francese. Del resto, poi, Sardelli è così filologo da regalarci una direzione d’orchestra col lungo bastone per tenere il tempo di cui, usualmente, si servivano i maestri d’orchestra all’epoca di Lully (che morì proprio in seguito a una ferita al piede procuratasi, in uno zelo eccessivo, mentre dirigeva giustappunto il suo ammiratissimo Te Deum).

La prima parte del concerto vede l’esecuzione delle sole musiche di scena per Le Bourgeois gentilhomme, uno dei comediés-ballets tanto amati da Luigi XIV e dalla sua raffinata corte. Il sodalizio fra «le duex grands Baptistes», Lully e, ovviamente, Molière, portò a capolavori che coniugavano teatro di prosa, musica di scena e canto: la suite, quindi, poco o nulla ci restituisce di un elaboratissimo genere teatrale che prevedeva anche sfarzose e ricche scenografie, le celebri architetture effimere che segnarono uno dei maggiori apogei di scenotecnica della storia. Sardelli è direttore e interviene anche eseguendo una breve parte per traversiere. Lully è restituito in tutta la sua brillantezza coreutica, in un’atmosfera sonora che si avvicina moltissimo a come andrebbe immaginata un’esecuzione secentesca. Sardelli interviene ponderatamente col bastone a marcare momenti di maggior intensità ritmica, a farci capire come s’eseguisse la musica all’epoca. Ottima la performance di tutti gli esecutori, ben amalgamati: cangianti ritmi, sonorità esotiche e orientaleggianti, invenzioni musicali sempre nuove, provenienti da una geniale polla inventiva, fanno solo intravedere cosa potesse essere l’originale sfarzosa produzione de Le Bourgeois gentilhomme. Un applauso prolungato, sincero, sentito, ricompensa Sardelli e gli esecutori.

Ma Lully scrisse anche musica sacra, non solo profana. Il Te Deum (organizzato come un mottetto dell’epoca), amatissimo da Luigi XIV, che lo volle più volte replicato, è un affresco barocco affascinante e coinvolgente. Il coro dell’Accademia di Santa Cecilia ci regala, al solito, un’eccellente esecuzione; in più, questa volta possiamo apprezzare alcuni elementi del coro che si cimentano in parti da solisti. La direzione è buonissima e restituisce vividamente la brillantezza epica della gran parte della scrittura orchestrale e corale: per esempio l’ingresso in «Te per orbem terrarum», o il «Tu ad dexteram Dei». Apprezzabile l’esecuzione dei solisti. Il basso ha una parte molto estesa e sovente dà l’abbrivio al brano: la scrittura è delicata, ma Andrea D’Amelio sa ben eseguirla con una voce pastosa e squillante che può avvalersi di un gradevole e autentico timbro di basso – in tal senso citerei il «Patrem immensae majestatis», il «Tu devicto mortis aculeo» e l’introduzione del finale «Dignare, Domine, die isto». Anche i due tenori, Carlo Putelli e Marco Santarelli, si comportano bene, in particolare negli ensemble. Nel delizioso quartetto «Te ergo quaesumus» emerge con piacere la delicata e suadente voce di Patrizia Polia, primo soprano, che inanella delle smaglianti messe di voce; le fa il controcanto Marta Vulpi. Il sentito «Miserere nostri, Domine» finale viene bissato dopo accesi applausi, che attestano l’alto gradimento del pubblico per la bella serata.