Grigory Sokolov

Sokolov, o della molteplicità

 di Roberta Pedrotti

Strepitoso concerto di Grigory Sokolov per Bologna Festival. Il pianista russo regala sei bis dopo un programma dedicato a Schumann e Chopin, resi con tutta l'intelligenza di un pianismo sofisticato e seducente.

BOLOGNA, 19 aprile 2016 - Un impulso nervoso, spalla, braccio, avambraccio, polso, mano, dito, tasto, martello, scappamento, corda; un impulso nervoso, gamba, caviglia, piede, pedale. Infinite potranno essere le variabili di tocco nel produrre un suono, ma il meccanismo, ridotto all'osso, sembra un fatto così semplice, un passaggio lineare dal cervello alla vibrazione della nota, un evento singolo netto, isolabile, univoco. Poi arriva quella scintilla di genio che illumina una rete di relazioni e svela come la singolarità del gesto racchiuda una molteplicità organizzata da una raffinatissima sintassi interna al discorso musicale.

Nel nostro caso la scintilla ha il nome di Grigory Sokolov, capace di fare di un unico tocco, di una singola cellula sonora una sintesi paradigmatica, un prisma che svela tutte le più diverse componenti di un unico raggio di luce. La precisione assoluta nel calibrare l'accento qualitativamente e quantitativamente, lo smalto del nucleo del suono si combina con una morbidezza suadente e, ancora una volta, sfumata in mille gradazioni con un effetto di perturbante sensualità, avvincente, esaltante, spossante. Un eros sonoro sottile e pervasivo che riposa in una finezza di lettura che si potrebbe definire maniacale se non la sorreggesse la naturalezza di una precisa identità fra personalità, intenzione, musicalità e tecnica. Il preziosismo, per esempio, di quei trilli che realizzano la perfezione strumentale vagheggiata dai cantanti con quella duttilità, quel senso del melos idealizzato nei manuali d'estetica vocale in un ventaglio di tipologie che spesso è chimera per le gole umane, figuriamoci per strumenti meccanici. Trillo isolato, maggiore o minore, trillo in progressione di genere diatonico, trillo in successione di gradi disgiunti, trillo in successione cromatica, portamento di voce trillato, trillo mordente, raddoppiato o lento… Tanti ne enumera Manuel Garçia, e non per un catalogo di abilità fini a se stesse, di vezzi leziosi, ma in quanto strumenti retorici. Tanti ne padroneggiava sua sorella Maria Malibran, regina di quel canto cesellato di genio finissimo, ricercato nella piega del dettaglio, che sembra echeggiare nel genio non meno sofisticato, seduttore e intellettuale di Sokolov.

Dà corpo, così, all'inquietudine, all'anelito inesauribile, e inesorabilmente deluso, di Schumann, penetra nelle strutture nascoste di Arabeske op. 18 e della Fantasia op. 17 (entrambe in do maggiore) plasmandole con la più intelligente eloquenza di combinazioni timbriche, dinamiche, agogiche, con le dita a scorrere velocissime e leggerissime, a sfiorare accenti o scagliarli come giavellotti, con la maestà cosmica dell'organo a suggellare la Fantasia, là dove le note cristalline poggiano su un suono eterno di bordone solennizzato dal pedale. Pedale che, viceversa, quasi scompare nel volo frenetico di falene tutto affidato al tocco inafferrabile della tastiera nel Quarto movimento della Seconda sonata op. 35 di Chopin. Due settimane prima l'avevamo sentita eseguita dalla bravissima Beatrice Rana [leggi la recensione], notando come questo testamento del Polacco sia fra le pagine che un pianista non potrebbe mai smettere di approfondire. Ecco: Sokolov dimostra qui come un genio possa giungere a suonarla dopo oltre mezzo secolo di carriera (e pazienza per l'applauso intermedio: cose che nell'Ottocento capitavano normalmente). Il Terzo movimento, con quella sua magistrale capacità di lucidissima sintesi fra il presagio della Marcia funebre e la scioglievolezza del Lento, una soffice madelaine sonora da delibare pian piano, è uno dei momenti pianistici più belli e di struggente delizia che abbia mai vissuto. E come una madelaine proustiana, tutto il concerto ha risvegliato la sensazione infantile del primo amore per il suono onnicomprensivo del piano, unita alla consapevolezza più matura di un'intelligenza musicale superiore a tramutare quello scintillante scrigno del tesoro in musica e in arte.

Il blu profondo dei Notturni op. 32 (il n. 1 in si maggiore e il n.2 in la bemolle maggiore), un'esperienza quasi tattile, aveva fatto da preludio alla Sonata chopiniana in una seconda parte perfettamente equilibrata rispetto alla prima, sapiente epifania dell'anima di Schumann. Resta, tuttavia, un'ultima vera e propria terza parte, ché Sokolov non è certo tipo da lesinare sui fuori programma e, di fronte a un bel gruppetto di persone che seguitavano ad applaudire senza abbandonare il proprio posto - incurante di chi correva per evitare si raffreddasse l'insalata ma non trascurava di salutare tutti gli amici in sala - ha prolungato il concerto di una buona mezz'ora, con ben sei bis resi con una profondità di lettura e una cura non inferiore alla scaletta istituzionale. Schubert, con quattro dei sei Momenti Musicali, Chopin con una Mazurka e soprattutto Canope di Debussy, reso con un'intelligenza veggente che ha saputo elevare tutta la genialità di questa pagina che Puccini – l'autore armonicamente più affine al francese – citò esplicitamente nell'incipit di “Senza mamma” di Suor Angelica.

Una di quelle serate che si vorrebbe non finissero mai, e la generosità di Sokolov ha fatto sì che, almeno in parte, il sogno s'avverasse.