David Krakauer

Estremo clarinetto

 di Roberta Pedrotti

David Krakauer porta alle estreme conseguenze il virtuosismo klezmer del suo clarinetto  nel cartellone di Bologna Modern.

BOLOGNA, 17 ottobre 2016 - La rassegna Bologna Modern si propone di rappresentare volti diversi della musica d’arte oggi, compreso quello più esuberante e pirotecnico, compreso quello che ha le sue radici composite non tanto nella tradizione “colta” occidentale, quanto nella cultura popolare. Ecco dunque che, fra i suoi contributi al cartellone condiviso, Musica Insieme porta al teatro Comunale il Krakauer’s Ancestral Groove, la pulsazione ancestrale della band capeggiata dal formidabile clarinettista newyorkese.

Sheryl Bailey alla chitarra, Jerome Harris al basso, Michael Sarin batterista e Jeremy Flower (alias Keepalive) a laptop e sintetizzatore si fanno portatori di un humus culturale eteroegeneo ma ben amalgamato nel segno della Grande Mela. Jazz e sonorità afroamericane, hip hop ed esperienze underground, folklore e retaggi delle varie identità riunite e stratificate negli Stati Uniti (e i racconti di immigrazione e incontri culturali suonano come un preciso, condivisibilissimo, messaggio politico). Su di essi spicca il clarinetto, la voce klezmer per eccellenza che trascina con sé ricordi lontani e diversi dell’Europa dell’Est.

Sinuoso, errante, enigmatico, tragico e ironico, sfuggente e profondo come solo il klezmer sa essere, questo clarinetto elide ogni enigma e ogni soluzione in un guizzare virtuosistico inesorabile, come un continuo fuggire da se stesso che a se stesso, inesorabilmente, continua a tornare. Non c’è tempo per lo swing, non ci si attarda mai, o quasi, nella melodia, perché urge questo moto perpetuo, sfrontato, inarrestabile. E, bisogna dirlo, David Krakauer è straordinario in questo arabesco totalizzante, in questi suoni infiniti, in questi acuti estremi e in estreme escursioni dinamiche, fra il fantasma d’un suono sporco, un soffio appena, e il trionfante fortissimo. Non c’è tempo nemmeno per respirare, e tutto questo moto guizzante vive nell’arco di un respiro interminabile, così impressionante e ipnotico che, talora, si ha la sensazione che il centro del concerto sia il fiato stesso e la musica nient’altro che la sua espressione sensibile, il linguaggio che afferma il soffio vitale: quando, poi, Krakauer sfida ogni limite in interminabili sequenze legate il suo volto si trasfigura nel circuito della respirazione circolare, senza soluzione di continuità, tutt’uno con il suo clarinetto e con il pneuma, l’alito di vita.

Inevitabilmente, e nonostante la bravura di tutti gli interpreti, è l’eloquio esuberante del clarinetto a catalizzare la serata, in un crescendo spasmodico in cui l’iterazione dei moduli klezmer su basi altre giunge a estremi quasi stranianti e puramente fisici. Anche quando si annuncia una sorta di duetto fra una ragazza del North Carolina (la chitarra, la tradizione folk americana) e un newyorkese “di nome Moskowitz” tutto si risolve come in un film di Woody Allen, in cui il clarinettista di Manhattan non lascia scampo a nessuno con la sua parlantina e la sua logica. Quando spira il vento lontano e nostalgico di motivi moldavi basta poco perché s’increspi nella frenesia, elettrizzante e un po’ nevrotica, degli arabeschi spericolati di Krakauer.

Tutto concorre a istillare un senso d’ebrezza, come se la saturazione energetica sembrasse giungere al culmine sensoriale e continuasse, tuttavia, a ricaricarsi senza soste. Su invito del clarinettista, che durante la serata ha intrattenuto il pubblico illustrando il programma con aneddoti e considerazioni autobiografiche in un inglese comprensibilissimo, molti si alzano in piedi battendo le mani a tempo o accennando movimenti ritmici.

Se il teatro non è esaurito, il successo è pieno, l’atmosfera allegra. Peccato solo che ancora una volta si sia riscontrata la difficoltà a godere pienamente di un repertorio che richieda amplificazione in una sala antica, raccolta e risonante come quella del Bibiena. L’eccessiva ridondanza tendeva a confondere un po’ le acque e, soprattutto, a porre un po’ troppo in secondo piano i compagni d’avventura di Krakauer: l’apertura della stagione del Comunale aldiverse forme di musica d’arte, e dunque anche a elaborazioni elettroniche e acustiche ove previste e necessarie, è di certo buona cosa, ma forse bisognerebbe ripensare gli spazi o i sistemi d’amplificazione e diffusione.