Andrea Battistoni

Attenti a quei due

 di Alberto Ponti

Estatici abbandoni ed esuberanze giovanili tra Sibelius e Čajkovskij

TORINO, 10 novembre 2016 - Lavoro dalla gestazione lunga e meditata, il concerto per violino e orchestra in re minore op. 47 (1902/04) rimane l'unico approdo in campo concertistico di Jean Sibelius (1865-1957), in cui il compositore finlandese riversa il tratto migliore della sua ispirazione, eminentemente lirica ma non disgiunta da un sapiente trattamento sinfonico. Il destino di quest'opera, che, nonostante una certa semplicità costruttiva, per la profondità delle sue idee si avvicina spesso al capolavoro, è necessitare di grandi interpreti per metterne in luce le qualità che in esecuzioni con poca personalità rimarrebbero altrimenti nell'ombra.

Sergej Khachatryan e Andrea Battistoni, entrambi molto giovani (60 anni in due!) ma già affermati, appartengono alla categoria di coloro che di personalità ne hanno da vendere. Il violinista armeno è senza dubbio uno dei migliori talenti della sua generazione: timbro di lucentezza eccezionale (esaltato da un Guarneri appartenuto nientemeno che ad Eugène Ysaÿe), tecnica prodigiosa, innata eleganza nella figura ne fanno un protagonista molto richiesto sulla scena internazionale degli ultimi anni. Khachatryan fa risuonare tutte le corde espressive che Sibelius, violinista egli stesso di formazione, riesce a toccare nella sua variegata scrittura, dall'intimismo colloquiale ma spiegato del tema d'esordio dell'Allegro moderato, alle perorazioni più cantabili dell'Adagio di molto, passando per la scintillante cadenza del primo tempo (unica concessione al virtuosismo di tutta la partitura) e il brillante Allegro non tanto finale.

Battistoni è dal canto suo un direttore promettente, dal gesto esageratamente teatrale e sempre un po' sopra le righe (il contrasto con il composto Khachatryan a fianco del podio non poteva essere più accentuato), ma il risultato, all'orecchio, è assai migliore di quanto non risulti all'occhio. Trascinatore nato, egli riesce a scoperchiare un autentico tumulto, anche a costo di qualche imperfezione agogica, a metà del primo e dell'ultimo movimento, negli unici due passi in cui l'autore si concede un momento di puro sinfonismo. L'Orchestra Sinfonica Nazionale assolve con passione il suo compito, con l'unico neo dei corni stranamente gracchianti nel finale.

Risultati notevolissimi sotto il profilo della coesione strumentale sono invece raggiunti negli altri due pezzi in programma: gli Otto canti popolari russi op. 58 (1906) di Anatolj Ljadov (1855-1914), penalizzati nella concertazione da alcuni eccessi di irruenza mal tollerati da una partitura di alta raffinatezza, tutta scritta in punta di penna, e la Sinfonia n. 2 in do minore op. 17 (1872) di Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840-1893). In quest'ultimo pezzo Battistoni incontra finalmente una composizione febbrile e sulfurea quanto basta per scatenare un'autentica girandola di fuochi d'artificio. I salti i e saltelli, le flessioni, le piroette del maestro fanno parte dello spettacolo allo stesso modo dei guizzi dell'ottavino, delle corse a precipizio degli archi, delle esplosioni di timpani e tromboni che si susseguono senza tregua in tutti i movimenti della più ottimista ed estroversa delle sinfonie cajkovskiane.

Il pubblico, accorso numeroso giovedì 10 e venerdì 11 novembre all'Auditorium Rai, tributa ovazioni per tutti, ma in particolare per Khachatryan che, oltre a un immancabile Bach, concede come bis un canto popolare della sua terra (L'albero di albicocche), la cui funambolica esecuzione sulla quarta corda lascia tutti col fiato sospeso.