Werther, l'alieno

 di Pietro Gandetto

L’Opéra Bastille riprende il Werther nell'allestimento di Benoît Jacquot con la coppia vincente composta da Piotr Beczala ed Elīna Garanča. Ampi consensi di pubblico per tutto il cast e per la bacchetta di Giacomo Sagripanti.

Parigi – 24 gennaio 2016 - Werther è, probabilmente, insieme con Manon, l’opera più moderna di Massenet, ma, per comprenderne realmente l’essenza, va subito chiarito l’enorme iato che distanzia Massenet dal testo letterario cui si ispira, I dolori del giovane Werther di Goethe. Mentre l’autore tedesco riflette nel protagonista esperienze personali fino a elevare il suicidio di Werther a metafora della sua liberazione, nulla di tutto questo accade in Massenet, al quale non interessa raccontarsi, ma semplicemente osservare, senza giudizi, la tragedia di un emarginato, di un diverso, per amplificarne i tormenti e le angoscie e offrirle in pasto al pubblico. L’intera vicenda si focalizza su due protagonisti (Werther e Charlotte), un antagonista (Albert) e un appoggio (Sophie), il coro è assente, a parte i bambini, e il resto è marginale.

Massenet fa di Werther un vero e proprio “dramma musicale” in cui il tradizionale recitativo viene innervato da ripetuti spunti melodici e le pause liriche (le classiche arie) vengono abilmente inserite e camuffate in un tessuto compatto e omogeneo. L’omogeneità e la continuità del tono espressivo portano a un melodismo che qui non conosce allentamenti e che, pur sacrificando in parte la presa teatrale dell’opera, regala vertici espressivi degni di nota, come i meravigliosi duetti, i couplet e gli ariosi.

Lo spettacolo prodotto dal ROH nel 2004 e qui riproposto dall’Opera National de Paris supera le aspettative. La regia concettuale di Benoit Jaquot lascia spazio all’essenza psicologica dei personaggi, come si confà a una partitura e a un libretto già densi di significati e messaggi. Werther è un’opera “chiusa”; gli ambienti afittici in cui si svolge l'azione sono metafora dell’esasperato intimismo dei protagonisti, collassati in un’interiorità che li fagocita come un buco nero. Le eleganti scenografie in tinte pastello di Charles Edwards rispondono pienamente a questa logica e sono efficaci nell’esprimere quel senso di oppressione psicologica che pervade dal capolavoro di Massenet. Dal muro in diagonale del primo atto che blocca ogni via di fuga si arriva alla camera da letto-capezzale di Werther, incorniciata in un riquadro che si sposta lentamente dalla quinta verso il pubblico, al quale vengono “offerti” i tormenti e i drammi dei due protagonisti.

Buona la bacchetta di Giacomo Sagripanti, uno dei più giovani direttori attivi nel panorama lirico internazionale. La direzione è fluida, la resa strumentale omogenea e ben coesa, pur salvaguardando il giusto rilievo alle singole sezioni o ai singoli strumenti cui l’autore affida i passaggi più intimistici. L’orchestra viene amplificata, non nei volumi, ma nella ricerca di un suono che diventi cassa di risonanza dei sentimenti e delle disperazioni dei protagonisti. I colori, le tinte e le atmosfere della partitura ben esprimono le inflessioni e i tormenti dei due protagonisti. Le sonorità di Brahms, Schumann e Čajkovskij e di tutto quell’Est cui Massenet si ispira vengono tradotte dall’orchestra parigina in un’atmosfera tipicamente autunnale, da feuilles mortes, dove trovano terreno fertile i toni grigi e i colori sbiaditi dei corni, del corno inglese, delle viole e dei violoncelli.

Venendo al cast vocale, segnaliamo anzitutto il contributo di Piotr Beczala. I sentimenti chiave di Werther, l’inquietudine, il tormento e la disperazione sono adeguatamente sviluppati dal tenore polacco; Werther è un diverso, una vittima dei suoi turbamenti e della sua malata ipersensibilità. Tutto il personaggio si snoda attorno a queste problematiche che non coinvolgono tanto la sfera dell’eros, insoddisfatto, quanto quello dell’amarezza derivante dal non essere capito e accettato. Werther è un incompreso perché libero, trasgressore e quindi “estraneo”; un eroe decadente che esalta esponenzialmente ogni stato d’animo, idealizzandolo all’eccesso, fino ad arrivare all’inevitabile conseguenza di questo modo di vivere, ovvero l’amarezza e, quindi, la morte.

La performance di Piotr Beczala parte in sordina e cresce per intensità nel corso della recita. Nel primo atto, il tenore è poco incisivo sotto il profilo scenico. Ma già nel secondo, la convinzione aumenta e il contributo dell’interprete sfocia in un finale maiuscolo sia per la resa attoriale sia per l’intensità musicale. La dizione è pressoché perfetta e Beczala è a proprio agio nell’impervia tessitura acuta, sia là dove il personaggio esiga una vocalità chiara e vellutata (metafora musicale della fragilità giovanile e del romanticismo suicida) sia nei tratti di maggiore intensità drammatica. Efficace e ricco di malinconia il “Pourquoi me reveiller” che termina con uno scrociante applauso a scena aperta.

Charlotte è una Bovary mancata. Non sappiamo che ne sarà di lei dopo il suicidio di Werther e, in particolare, se l’inevitabile rancore per Albert o la malinconia di Werther le faranno fare la fine di Emma. Sin dalle prime frasi, è una donna dalla psicologia anfibia, avvolta nel mistero, brillante di una sensualità algida e al contempo animalesca. Charlotte resiste a fatica all’amore di Werther, in nome di una promessa fatta alla madre e ad Albert che le sta stretta e le appare insulsa. È da questa castrazione psicologica che esplode, al contrario, un personaggio di dimensioni enormi, che fa di Charlotte una tra le massime eroine del melodramma francese. Forse proprio per rimarcare la distanza tra gli slanci di Werther e le ombre della sua amata, Massenet attribuì a Charlotte una vocalità mezzosopranile, in apparente contrasto con le consuetudini dell’opera ottocentesca, dove le giovani donne amate trovano nella tessitura sopranile un territorio d’elezione.

In questo contesto, segnaliamo l’eccellente performance di Elīna Garanča. Il personaggio è reso con grinta e temperamento e alla consueta eleganza del fraseggio si accompagnano volume e timbro più profondi e sonori rispetto agli ultimi ruoli. La voce è calda, scura e di bel colore e l'emissione è morbida e pastosa, senza mai alcun accenno di forzatura. L’omogeneità dell'emissione le consente di declinare senza cedimenti un'espressione cui non sono mancate soavi mezzevoci. Eccettuata la dizione indefinita e quasi incomprensibile (rovescio della medaglia proprio di una vocalità così compatta e pastosa), il ruolo le sta a pennello, soprattutto per la capacità di esprimere le ambiguità e i tormenti della Charlotte.

Dell’Albert di Stéphane Degout, segnaliamo una vocalità invidiabile per timbro, proiezione e musicalità. Albert è il simbolo dell’ostacolo frapposto dalla società borghese all’amore dei due protagonisti: un diaframma complice di quella stessa tensione senza la quale il dramma di Werther non avrebbe senso.

La purezza giovanile di Sophie viene espressa da Elena Tsallagova con una voce dal timbro luminoso e soave e un’impostazione tecnica d'alto profilo. Ugualmente buoni il Bailli di Paul Gay, lo Schmidt di Rodolphe Briand e il Johann di Lionel Lhote.

Accanto a questo groviglio di sentimenti, passioni, rimandi e significati, un vero e proprio personaggio viene impersonificato dal coro di voci bianche, metafora vocale di un incontaminato candore adolescenziale, portatore di messaggi reconditi, come i canti natalizi che aprono e chiudono il dramma.

In conclusione, copiosi applausi per tutto il cast e ovazioni per i due protagonisti. Una serata di quelle da ricordare.