Due leggerezze borghesi

 di Francesco Lora

Hazon e Wolf-Ferrari: un dittico di atti unici vede mimata la piccola realtà quotidiana, con brave coppie formate dai soprani Rossi e Vendittelli e dai baritoni Gabba e De Simone. Prezioso il lavoro di Morassi con gli attori e ben a fuoco la direzione di Calesso.

VENEZIA, 26 gennaio 2016 – Comportamento eroico e riferimento etico: personaggi e soggetti del teatro d’opera sono esemplari nell’uno e nell’altro senso, almeno finché la fase storica ha visto in questo genere un luogo di alta riflessione sociale o una nobile bibbia dei poveri; più recente (secondo Ottocento, soprattutto operettistico) è il fenomeno di cercare nell’opera il divertimento, il passatempo di una classe borghese più annoiata che disposta allo stimolo cerebrale, quella che non ama il monito del grillo parlante e si accontenta del mero diversivo. A quest’ultimo indirizzo si rifà il dittico operistico assemblato dal Teatro La Fenice nel Teatro Malibran, per cinque recite dal 23 gennaio al 4 febbraio: lo formano l’assai rara Agenzia matrimoniale di Roberto Hazon (1962) e il più noto Segreto di Susanna di Ermanno Wolf-Ferrari (1909-11). Due commediole borghesi novecentesche, in atti unici brevi, confortevolmente tonali e anzi cantabili, basati su trame esilissime che mimano la vita quotidiana, farcite per puro colore con dettagli di nessun ruolo drammaturgico. Ma commediole godibili, beninteso, dove la mancanza di un appeal eroico chiama a maggior responsabilità ed evidenza l’interprete e le sue risorse.

Prezioso è il lavoro del regista Bepi Morassi, che lavora a fondo con gli attori per la restituzione di profili psicologici comuni ma còlti sotto ogni possibile angolatura: cosa, questa, più gravosa che lavorare su personaggi tragici dominati da un solo pensiero e tutti identificati in un singolo ruolo. Nella coppia di Argia e Adolfo, in Hazon, come in quella di Gil e Susanna, in Wolf-Ferrari, emerge così con tenerezza, gioco e malinconia il gioco di affettuose dissimulazioni, disagi interiori e imprevedibili risoluzioni. Ciò che si vede sul palcoscenico, in elementi e accessori, è l’abolizione di orpelli a fronte di testi già sovraccarichi: le scene di Sebastiano Spironelli e i costumi di Caterina Righetti consistono in un divano e in fondali luminosi, in abiti che obbediscono alla didascalia e in altri che, calando dall’alto e con tocco surreale, formano essi stessi la struttura scenografica. Il discorso musicale, a sua volta, è presieduto dal direttore Enrico Calesso: alla testa dell’orchestra fenicea, egli si distingue per prontezza al mutamento espressivo, sottigliezza nella ricerca dei colori, leggerezza nel contrappuntare il canto di conversazione, autorevolezza nel sostenere i luoghi interludi strumentali di ambe le operine.

Quattro soli personaggi in Hazon e tre soli in Wolf-Ferrari, con l’ulteriore considerazione che nel primo caso due sono di mero comprimariato, mentre nel secondo la figura del servitore è muta: tutto è sulle spalle delle due coppie amorose, realisticamente affidate alla borghesia di un soprano e di un baritono. In Hazon, non poco impegnativa è la parte di Argia, sia poiché lunga e compresa tra registri lontani, sia perché tali caratteristiche vocali corrispondono a un personaggio alterato e lunatico: Gladys Rossi tiene tutto con piccata sicurezza, facendo scorgere in qualche fragilità e tensione non altro che il carattere della donna che impersona. Le è accanto in modo ideale Armando Gabba come Adolfo: vocalità comune per un uomo qualunque, ma tanta bontà d’animo veicolata con consumata e graffiante arte di attore. Anche nei conflitti e nelle diversità, la coppia c’è, dialoga, si scopre a vicenda e si schiude pian piano alla platea. Né va dimenticata la bontà del comprimariato: nella parte della Barbona, Elisabetta Martorana lascia alla mente la popolana esuberanza mediosopranile, mentre Lieta Naccari veste i panni della Segretaria con tanta puntualità di solfeggio quanta – soprattutto – stilizzata simpatia recitativa.

Un poco differente è il contesto in Wolf-Ferrari, dove l’azione guarda ancora alla piccola nobiltà d’inizio Novecento anziché alla classe operaia del secondo dopoguerra. Arianna Venditelli, così, dà spirito e corpo a una Contessa Susanna trattenuta dalle buone maniere ma briccona nel profondo, sinceramente ignara dell’equivoco che va montando a proposito di sigarette nascoste e presunto adulterio, lirica, angelicata e giovanissima nel canto ma pronta a difendere la sognante evasione nel cavaturacciolare del fumo verso l’alto; qui non conta essere primadonna, ma calzare come un guanto – ciò che avviene – a un personaggio a misura di storiella. Pieno di verve è a sua volta Bruno De Simone nei panni del Conte Gil: non un principe charmant ma anch’egli un ometto sospettoso, inseguito in ogni trascolorare di umore da un baritono buffo tra i più scaltriti; spiace solo che l’attore e il personaggio, nonché la prestanza del cantante, sopravanzino a tratti l’esattezza della lettura musicale, inficiata da ricorrenti sfasamenti rispetto all’accompagnamento strumentale. Piene di brio le controscene del mimo Davide Tonucci nella parte del servo Sante. Alla recita serale di metà settimana, uditorio anch’esso di rilassata sornioneria borghese.

foto Michele Crosera