La fine del Ring delle violenze

 di Giuseppe Guggino

 

Si chiude l’anello e si chiude in bellezza, esattamente come il progetto aveva avuto avvio con lo splendido Rheingold del 2013. Orchestra in stato di grazia, magnifica la Brünnhilde di Iréne Theorin, coerente e a tratti raggelante la lettura di Graham Vick. Trionfo di pubblico alla prima, anche grazie alla massiccia presenza di oltre 300 under 35 dell’Associazione Giovani per il Teatro Massimo.

Palermo, 28 gennaio 2016 - Non sono le tre figlie di Erda a filare la corda del destino ad aprire questa Götterdammerung ma tre donne intente a fabbricare un ordigno per un attentato terroristico. Il perché lo si capirà dopo circa cinque ore e mezza, quando Graham Vick, citando contemporaneamente i finali dei suoi due Moïse/Mosé pesaresi, farà provare il brivido nella schiena degli spettatori. Tra l’inizio e la fine, teatro allo stato puro, fatto di poche, pochissime scenografie, molte idee e qualche eccesso. Che nella lettura di Vick la mitologia nibelunga non esista, soppiantata da una storia che parla delle nostre aspirazioni e delle nostre miserie era cosa già chiara dalle tappe precedenti di questo viaggio; qui, nella corte dei ghibicunghi, le cose si fanno ancora più esasperate. Hagen e i fratellastri Gunther e Gutrune vivono in un appartamento lussuoso, parete total white, carrello del whisky con droghe di ogni tipo, immancabile il tablet per i selfie nei festini. Gutrune e Gunther non sembrano avere molti altri pensieri oltre quello per il push up del décolleté di lei e per i chili da sollevare in palestra per lui. Bravi ragazzi, solamente un po’ cocainomani, in fondo. Lucido, spietato macchinatore invece è Hagen la cui cattiveria si palesa già nel vestiario (curato con il consueto calligrafismo da Richard Hudson). Ovviamente la pozione con cui Gutrune fa dimenticare Brünnhilde a Siegfried non può che essere ecstasy e il giuramento di sangue fra quest’ultimo e Gunther non può che essere suggellato da due pere d’eroina con la medesima siringa.

Si abbandona questo mondo di dissoluzione solamente per poco, con la walkiria Waltraute che compare in loggione e viene quasi trasportata in palcoscenico da un efficace gioco di luci (una menzione speciale alla bella Viktoria Vizin, brava anche dei 400 metri per le scale, oltre che nel canto); ma le violenze ritornano quando Siegfried, abbandonate le felpe da bamboccione e abbigliato come Gunther – tutto qui l’effetto dell’elmo magico – possiede Brünnhilde e le strappa l’anello.

Ancora una volta si ricorre ad una rilettura del libretto, senza che il senso delle parole entri mai in collisione con l'azione, per la scena di Alberich, in realtà qui presente spinto sulla carrozzina dal figlio Hagen. Il capolavoro teatrale è il doppio matrimonio: luci in sala, è la platea la location della cerimonia, con i fans a idolatrare le coppie sia tra il pubblico sia dietro una parete grigliata, dopo aver barbaramente picchiato gli dèi Wotan, Frika, Freia, Froh, Donner e Loge portati in scena da bambini abbigliati esattamente come avevamo visto nel Rheingold. Ritorna poi il Reno antropomorfizzato dai mimi e le figlie dismettono i panni da ragazze pon pon per vestire quelli di donne da marciapiede; non è che il preludio per la caccia, riletta come stupro di gruppo.

Molto poetico l’ultimo quadro: nella morte di Sigfrido sono i mimi (che in questo Ring hanno fatto di tutto, dai cavalli antropomorfi delle walkirie, alle personificazioni del fuoco, alle onde “umane” del Reno) a portare in scena brandelli di ricordi delle altre giornate: le sedie del Reno, le sedie del Walhalla, le sedie del cerchio di fiamme attorno a Brünnhilde, i girasoli, il letto a castello di Siegfried a casa dell’abietto nano Mime, il carrello elevatore dei giganti poi diventato drago. Passano gli oggetti dopo le quattro giornate di violenza e il pensiero va alle violenze di questi tre anni, gli attentati terroristici, i nani che continuamente e ineludibilmente si affacciano al proscenio della quotidianità. Si pensa anche alla violenza dell’interruzione forzosa di questo Ring. E viene da pensare che quel mago del teatro che è Vick – come lui dice di Shakespeare – in fondo, avesse raccontato tutto.

Rimane il finale nichilista, quell’esplosione solamente accennata che ci sia augura rigeneratrice, prima di riprendere da zero con un nuovo anello.

Inutile spendere lodi per il livello tecnico della parte visiva ché si risulterebbero pleonastiche. Qualche piccola sbavatura nelle luci è compensata ampiamente dall’effetto del sole che sorge nel duetto Siegfried-Brünnhilde pensato da Giuseppe Di Iorio.

I mimi anche in questa circostanza sono preparati alla perfezione da Ron Howell (la cui voce gli ascoltatori della diretta Radio3 avranno avuto modo di percepire a fine recita in qualche approvazione non molto british rivolta loro).

Il Massimo di Palermo sa mantenere la sua tradizione di prestigio nella scelta della figlia prediletta di Wotan (gli annali annoverano Salomea Krusceniski e Hildegard Behrens) giacché Iréne Theorin, oltre a essere nome di levatura internazionale, canta magnificamente Brünnhilde: metallo di prim’ordine, volume immenso, tenuta invidiabile, notevolissima presenza scenica. Non altrettanto bene può dirsi del versante maschile del cast, giacché Christian Voigt canta un po’ meglio che nella penultima giornata del Ring, ma pur sempre con intonazione sovente approssimativa. Intonato ma dall’emissione non molto ferma è Eric Greene nei panni di Gunther, mentre il basso Mats Almgren dona a Hagen voce grevia, ancorché molto sonora. Sia Gutrune che Waltraute sono molto ben cantate da un’avvenente Elizabeth Blancke-Biggs e dall’accorata e delicata Viktoria Vizin, pur non potendo competere entrambe neanche lontanamente con il tonnellaggio vocale della Theorin. Completa il cast l’Alberich di Sergej Leiferkus, presente in tutte le giornate di questo Ring, la notevolissima Christine Knorren sia come seconda Norna che come Wellgunde, Stephanie Corley che fa meglio la terza Norna rispetto a Woglinde, l’efficace Flosshilde di Renée Tatum e la sonora ancorché caricata nei gravi Annette Jahns quale prima Norna.

In stato di grazia l’Orchestra del Teatro Massimo che, eccettuata qualche mollezza nei violini e nei violoncelli (appena sei in buca) e qualche pasticcio occasionale delle trombe, fornisce sotto la guida di Stefan Anton Reck una prova di grande compattezza, nonostante la cancellazione di qualche prova resasi necessaria per consentire le sedute di registrazione per il nuovo cd di canzoni napoletane di Jonas Kaufmann. Altrettanto maiuscola la prova del Coro maschile guidato da Piero Monti e i brevi incisi del Coro femminile cantati dalla platea. Molto efficace si rivela anche dal punto di vista musicale l’uso “stereofonico” della sala con i corni a suonare dal palcoscenico o dal vestibolo di accesso alla platea, oppure ancora dai palchi di proscenio, dove si trova anche l’arpa nella scena delle figlie del Reno.

Bene ha fatto il Teatro, a fronte di uno spettacolo tanto ben congeniato, a correre ai ripari di fronte al massiccio invenduto al botteghino sollecitando il soccorso dell’Associazione Giovani per il Teatro Massimo, altro fiore all’occhiello – come questo spettacolo – nato dalle feconde esperienze di stages universitari intavolati nella sovrintendenza Cognata nel 2011-12, capace di piazzare (nel giro di una settimana) oltre 300 biglietti per giovani under 35, che hanno tenuto – con pochissime defezioni – un livello di attenzione bayreuthiano per tutta la serata, salutando con applausi scroscianti le uscite degli interpreti. Segno che, al di là delle violenze, i cicli vanno sempre avanti, anche dopo gli annientanti roghi: un po’ quello che pensa Vick quando, soffocato Hagen con un sacchetto di nylon, fa lanciare verso il pubblico l’anello della maledizione, perché ognuno ne possa disporre ad libitum nei propri Ring quotidiani.

foto Rosellina Garbo