La noia e l’inganno

 di Francesco Lora

Il Teatro alla Scala si impegna al repertorio antico con la costituzione di un’orchestra di strumenti d’epoca. Ma nel Trionfo del Tempo e del Disinganno dimostra quanti e quali errori esegetici tengano ancora in ostaggio i lavori di Händel e dei suoi contemporanei.

MILANO, 3 febbraio 2016 – Con un ritardo di venti-trent’anni rispetto al cuore dell’Europa, nei teatri italiani si fa ancor oggi un’enorme fatica ad allestire opere del repertorio secentesco e protosettecentesco, siglata da platee vuote per metà. La causa è nelle istituzioni, rese inabili da insufficiente competenza storica, artistica e stilistica, nonché dal letto di Procuste organizzativo, contrattuale e sindacale. E l’effetto è un uditorio che, vedendosi servire piatti scarsi e tutt’altro che appetitosi, finisce con il collezionare una montagna di pregiudizi sul valore in sé della musica pre-mozartiana. Le eccezioni ci sono ma rimangono tali: una consolidata benché sporadica attenzione da parte del Teatro La Fenice, dei teatri di tradizione dell’Emilia-Romagna e di qualche festival più morto che vivo, come quello estivo dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena, o in piene forze come quello della Valle d’Itria a Martina Franca e località limitrofe.

Più di recente, uno specifico spazio è tenuto nel proprio cartellone dal Teatro alla Scala. Con ostacoli congeniti, vizi imperituri e nuove virtù. Il principale ostacolo è nella sala di Piermarini, troppo voluminosa per portare a bastante risonanza voci più agili che potenti, ottoni naturali e archi incordati in budello. Nel dire ciò, si è sottintesa l’ormai acclarata necessità di ricorrere a cantanti specialisti e a strumenti d’epoca. Sul secondo punto, la Scala ha fatto le cose in grande: per sette recite dal 30 gennaio al 3 febbraio è ora lì tradotto in forma scenica l’oratorio La Bellezza ravveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno, arci-capolavoro romano del giovane Georg Friedrich Händel; e in quest’occasione il teatro ha varato una propria orchestra di strumenti originali, ricorrendo per i tre quarti a suoi versatili professori. La concertazione è affidata a Diego Fasolis, esperto ma intimidito, più indugiante del solito nei tempi e meno michelangiolescamente autorevole nel chiedere e ottenere ciò che vuole. Anche perché, da questo punto in avanti, vengono a galla vizi non da lui dipendenti.

Sconsolante è l’allestimento con regìa di Jürgen Flimm e Gudrun Hartmann, scene di Erich Wonder e costumi di Florence von Gerkan: concepito per Zurigo e Berlino, è poi passato in altri teatri di prima importanza in nome delle convenienze commerciali e in spregio a quelle umanistiche. La Bellezza ravveduta – o Il trionfo del Tempo e del Disinganno, come lo chiamano amici e ignari – non consta tanto di un’azione quanto di un dialogo, interiore (à la Maria di Magdala) ed espresso in allegoria tra il polo centrale della Bellezza e quelli contrapposti del Piacere da una parte e del Tempo e del Disinganno dall’altra. Bizzarro è il proposito di volerne fare, rispetto ad altri lavori congeneri in ciò più malleabili, uno spettacolo da vedere in esplicito. Un tale cimento potrebbe essere affidato, in chiave tutta estetizzata, a un genio del bello come Pier Luigi Pizzi; ma nel 2007 anche Denis Krief ne ricavò forse la sua miglior regìa: alla Sagra Musicale Malatestiana di Rimini, in uno spazio di fortuna dove il pubblico entrava a fatica, riunì i quattro interlocutori intorno a una tavola imbandita e lì li fece conversare in musica fino alla rottura finale, con la Bellezza a rimirarsi in specchi deformanti. Una chiave di lettura tra diverse possibili.

Flimm, invece, non ne trova né attua veruna. Ancora a molti anni di distanza dalla creazione di questo allestimento, egli non possiede strumenti culturali, retorici e nemmeno linguistici per penetrare la poesia del cardinale Benedetto Pamphilii: si limita a impacciare la musica con una sfilata di controscene che nulla condividono con la parola, con la metafora e con la lezione etica lì presenti. È l’horror vacui del Regietheater grottescamente imposto a un testo orgoglioso della propria volatilità materiale e della propria densità filosofica. Il pubblico un poco si diverte a inseguire con l’occhio scenette che lo distolgono dalla parola e dalla musica, poi inizia a sbadigliare e tornerà a casa pentito di aver speso soldi nella noia di un’opera barocca. Bel lavoro.

Errori da capo a fine, cioè non incidenti di percorso a fronte di una buona idea di partenza, ma sbagli di valutazione che mai avrebbero potuto condurre a un esito di pregio, si trovano infine nelle quattro anime della compagnia di canto. Anzi in tre. Il contralto Sara Mingardo, che sostiene la parte del Disinganno, appartiene infatti a una generazione seniore di specialisti del canto antico, la quale privilegia l’omogeneità dei registri e la gentilezza del porgere rispetto a un temperamento e a un virtuosismo più esibiti e più conformi alle vagues dell’ultimo decennio. Non fa dunque fremere di novità interpretativa, né si espone più di tanto per sottigliezza attoriale, ma dà una lezione di buone vecchie maniere, incantando a ogni aria per aroma di pasta e aristocrazia di legato. Poi si va discendendo. Il tenore Leonardo Cortellazzi, che sostiene la parte del Tempo, potrebbe dare una lezione di prosodia italiana e timbro latino ai colleghi d’oltralpe; si accontenta invece dei modi sciatti e buffoneschi di un Don Basilio mozartiano di tradizione, districando a fatica anche i modestissimi passi d’agilità che gli spettano.

A sua volta Lucia Cirillo, soprano ammirato in più occasioni, nell’approcciare la parte del Piacere fa il passo più lungo della gamba. La scrittura vocale dello Händel romano e protolondinese esige articolazione di esattezza strumentale, non di rado sottolineata dal contrappunto tra le voci stesse o tra la voce e lo strumento concertante: scabrose quartine di semicrome dove non una nota ha da essere sgarrata e dove generazioni di cantanti hanno registrato gloria o caduta. La Cirillo vanta qui molte tra le arie più spettacolose e ardue, e ne annette un’ulteriore scippando alla parte della Bellezza – quale sarebbe il senso drammaturgico dell’atto? – la tumultuosa «Un pensiero nemico di pace»: in tutte confessa il disagio dell’estensione, l’inesattezza nella coloratura, l’apprensione che la porta poi a soprassedere alle ragioni espressive.

Nel fondo dell’abisso si trova infine il soprano Martina Janková nelle vesti della Bellezza. Educata alla scuola di canto tedesca e imperita di stile e prosodia italiani, ella frantuma le linee melodiche tra un registro acuto vetroso, un registro mediano querulo e un registro grave sguaiato. Canta note e sillabe come se ciascuna fosse un’entità autonoma, senza dar loro, a coppie e nell’intero, direzione di frase musicale e di intenzione espressiva; la sineresi e sinalefe stessa, cioè la raccolta di due vocali sotto una stessa nota e uno stesso calcolo sillabico, resta per lei un mistero. Procura all’ascoltatore ampia certezza di non conoscere il significato letterale preciso, né tantomeno quello retorico ed erudito, di ciò che ella vada cantando. Un esempio preclaro di quell’arrogante scuola di presunti specialisti che vorrebbe far invidia alla Roma barocca senza averne mai respirato l’aria.

foto Brescia Amisano