Leo Nucci, Carmen Giannattasio e Giorgio Berrugi in Simon Boccanegra

Pace v'imploro, pace!

  di Pietro Gandetto


Ripresa alla Scala del Simon Boccanegra secondo Federico Tiezzi. Un allestimento che non convince fino in fondo, valorizzato dall’equilibrata lettura musicale di Chung e da un consesso vocale di alto rango.

Milano, 28 giugno 2016 -  All’inizio è chiusa, schiva e un po’ refrattaria, ma poi aperta, coinvolgente e tersa come una giornata di sole sul lungo mare. Stiamo parlando di Genova, ma in realtà anche dello stesso Simon Boccanegra, che ruota attorno agli intrighi politici e alle lotte sociali di quella Superba che nel basso medioevo fu una delle principali potenze commerciali del Mediterraneo.

La ripresa del Boccanegra già visto a Milano nel 2010 e nel 2014 immerge il pubblico nella cupa notte genovese, non senza momenti di iniziale noia soprattutto in un prologo e un primo atto che funzionano fino a un certo punto. La regia di Federico Tiezzi (qui ripresa da Lorenza Cantini) e le scene di Pier Paolo Bisleri, infatti, continuano a non convincere. Non si capisce dove sia la Chiesa di San Lorenzo che il libretto vuole “sullo sfondo” del Prologo, non si capisce perché Amelia sia circondata da ancelle all’apertura dell’Atto I, scelta non richiesta da Boito e che mal si concilia con l'umore solitario che la pervade.

La situazione migliora più oltre, con le soluzioni adottate per gli interni della sala del Consiglio e del Palazzo Ducale.  Soddisfa l’ampia cornice rettangolare del finale dell’Atto III, che riflettendo le calde luci del golfo mistico ben rappresenta le “aperture dalle quali si scorgerà Genova illuminata a festa” per la vittoria sui Guelfi.  Nel complesso, però, l’allestimento non si sottrae alle censure già mosse in allora (leggi la recensione).

Di contro, un mirabile esempio di come si ‘gestisce’ Verdi arriva da Myung-Whun Chung.  Lavorando di bulino, il direttore sud coreano porta in dote la sapienza della tradizione orientale che gli consente di scontornare un Verdi caratterizzato da un clima estatico di pace e di sereno abbandono. Tutta la concertazione è tesa a una lotta e a un ordinato scontro musicale non fine a sé stesso, ma funzionale al raggiungimento di un’oasi di una pace politica, psicologica e morale, conquistata infine con la morte e con la composizione dei dissidi sociali. E, in effetti, soprattutto nel finale (riscritto da Verdi nella revisione del 1881), Chung riesce a restituirci i risultati migliori. Il Maestro respira coi cantanti, ottiene un buon legato e le tinte, le dinamiche e gli accenti sono dosati con equilibrio e sapienza stilistica.

In sintonia con la concertazione di Chung, la lettura che Leo Nucci dà del vecchio Doge. I mezzi vocali sentono, com’è naturale, gli spiacevoli segni del tempo soprattutto nella fissità di certi suoni presi dal basso e nella stanchezza complessiva dello strumento. Ma la  sapienza attoriale e l’indiscusso valore dell’ampia carriera consentono di apprezzare un Doge immediato, commosso e autorevole.  In questo Simone c’è l’ira, ma anche l’animo del marinaio, c’è la commozione sincera di chi ha creduto genuinamente nei valori della vita (“Piango su voi”).  Boccanegra, quasi spento dal veleno, e Fiesco, vinto politicamente, sono due vecchi sconfitti, ma anche qui (come in Rigoletto), grandi nella loro umanità perché accomunati da quella malinconia così struggente e dalla più disarmante sincerità nelle loro disgrazie.

Fiesco è uno dei grandi vecchi verdiani, che ereditando la fierezza di Oberto, e passando da Silva, Foscari, e Germont, beneficiano di un affinamento compositivo straordinario. Dmitry Beloselskiy è efficace nella resa del nobile offeso e orgoglioso, che crede graniticamente nella gerarchia e nei valori della casta e vede nell’ascesa di Simone il crollo di un ordine immutabile. È dotato di una vocalità appagante, imponente e fluida, ma povera di sfumature e di spessore nelle note gravi, nelle quali avremmo apprezzato una maggiore presenza.

Il più apprezzato contributo della serata viene da Massimo Cavalletti, che rispetto ai recenti ruoli scaligeri (Ford e Marcello) sembra aver trovato nel fiero e strisciante Paolo Albiani, il suo personaggio idale. Sin dal Prologo, Cavalletti si fa notare per le sottolineature drammatiche affidate a Paolo (e tipiche anche di Jago). Apprezzabile nel declamato della scena del veleno, in cui si distingue per la scultorea accentuazione della linea vocale e la resa dei toni sinistiri e biechi del personaggio, che sono però sempre supportati da un fare elegante e raffinato. La voce appare bella e più rotonda e profonda che in passato, soprattutto negli ampi acuti.

Carmen Giannattasio è un’Amelia sofisticata. Dotato di una buona sicurezza tecnica ed espressiva, il soprano dà sfoggio di un’emissione sana e luminosa caratterizzata da preziosi filati, una generosa risonanza e una buona omogeneità timbrica (fatta eccezione per la chiusura di alcune vocali nelle note basse). La postura e il fare aristocratico conferiscono credibilità al ruolo.

Nel secondo atto, Giorgio Berrugi ben definisce il personaggio di Gabriele, rimasto prima nell’ombra (per volere di Verdi, s’intende). Di proposito l’autore non voleva mettere in rilievo la vicenda amorosa, circoscrivendo l'impeto tenorile rispetto alle più pregnanti traversie umane e politiche, nerbo dell'opera.

Completavano il cast, il Pietro di Ernesto Panariello, il Capitano dei balestrieri di Luigi Albani e l’ancella di Barbara Lavarian.

Un lavoro musicalmente convincente che conferma l’imprescindibile valore del repertorio verdiano, di cui si ha tanto bisogno, per la straordinaria capacità di indurci a riflettere su valori e contenuti così attuali soprattutto in quest’epoca difficile.

foto Brescia Amisano