Aida all'arena di Verona: Luciana d'Intino è amneris

Fosche nubi sull'Egitto

 di Andrea R. G. Pedrotti

Alcune nubi nere tingevano il cielo di Verona, la sera del 17 luglio, forse presagio d’una serata che non sarebbe stata fra le più fauste della storia dell’anfiteatro.

Leggi la recensione della prima con He, Eyvazov, Komlosi e Maestri del 25/06/2016

VERONA, 17 luglio 2016 - Ancora una volta torna Aida, ancora una volta nell’ormai vetusto e niente affatto funzionale allestimento di Gianfranco De Bosio. Purtroppo tutte le pecche della messa in scena, ispirata a quella che fece bella mostra di sé il 10 agosto 1913, emergono prepotenti qualora ci si trovi in presenza di una compagnia di canto e di una concertazione certamente non memorabili.

Rispetto alla prima rappresentazione, la scenografia recupera la sua integralità: i braceri vengono posti presso il loro alloggio naturale, le colonne sono nuovamente otto e gli architravi tornano a ergersi su di esse. Alcune scene di massa sono senz’altro piacevoli, restano sempre molto belli i nasti colorati di alcune ballerine nella scena del trionfo e molte immagini rammentano stampe (datate) di un’epoca lontana. Lo scorso anno titolammo l’articolo sul Nabucco inaugurale “Cartoline da Babilonia” [leggi], mentre quest’anno le cartoline provengono da Memfi. Non si può pensare, nel 2016, che un festival internazionale possa basarsi su immagini da dagherrotipo. Nel 1913 i presenti furono impressionati dalla novità delle scene tridimensionali, e masse artistiche sterminate, ma Arrigo Boito, Giacomo Puccini e tutti gli altri presenti erano persone dalla mente agile. Boito soprattutto era un innovatore geniale, così come gli altri scapigliati; potremmo anche sbagliarci, ma crediamo che, dopo 103 anni, ne avrebbe avuta noia. Logicamente la storia resta la stessa, la musica resta la stessa, ma deve cambiare il modo di raccontarla, altrimenti diventa abitudinaria ed è destinata a morire nel tedio.

Passando a un risvolto più schiettamente pratico, non è più concepibile pensare che un’Aida possa avere una durata di quasi quattro ore (intervalli compresi), a causa di eterni cambi scena, micidiali alla continuità drammaturgica dell’opera. È estenuante l’attesa dei preparativi del finale primo, con numerose persone ad alzarsi, convinte che sia stata programmata una pausa e le povere (ma sempre di grandissima professionalità) maschere della fondazione costrette a rincorrere gli indisciplinati presenti per avvertirli, con educazione e garbo, che l’opera non è ancora interrotta. Discorso simile prima della scena del trionfo nel secondo atto. Solo il terzo atto ha una certa fluidità, essendo ambientato in un unico quadro scenico, mentre è sconfortante la lunghissima attesa, dopo la scena del giudizio di Amneris, prima del duetto finale, sotto la “fatal pietra”. L’allestimento a firma di Zeffirelli, andato in scena lo scorso anno, potrà non piacere, ma è almeno funzionale alla vicenda.

Tutto questo ha, senz’ombra di dubbio, un effetto mortifero sulla magia che si dovrebbe vivere in Arena.

Purtroppo anche la compagnia di canto non ha dato risposte particolarmente positive, a cominciare dalla protagonista. A causa dell’indisposizione della titolare della serata (Monica Zanettin, a cui vanno tutti i nostri auguri di pronta guarigione), sul palco s’è presentata la cover prevista per il ruolo, ossia Nunzia Santodirocco. Il soprano non è stato assolutamente all’altezza della situazione, palesandosi come la peggior schiava etiope che abbia tentato il cimento di cantare in Arena. La sua prestazione è stata fin imbarazzante; spesso la voce nemmeno arrivava al pubblico, molte parti erano declamate e, quando il soprano tentava un’impostazione del suono almeno accettabile, questo si rompeva sistematicamente. L'emissione era tecnicamente fantasiosa nella posizione e, sicuramente, poco funzionale. La scena “Ritorna vincitor!” era udibile a tratti, ma, in compenso, arricchita da una mimica costantemente sopra le righe, se non isterica, mentre l’interpretazione della celeberrima aria del terzo atto “O cieli azzurri” non si è dimostrata certamente all’altezza nemmeno d’un palcoscenico lirico di provincia, con un “do” dalle sonorità a dir poco terrifiche.

Migliore del cast è stata l’Amneris di Luciana D’Intino, solida tecnicamente e fresca vocalmente per l’intera durata dell’opera, molto brava a non mutare mai l’emissione nei tre registri e capace di interpretare una scena del giudizio di ottimo livello. L’unica pecca che si può imputare al mezzosoprano è una certa mancanza di personalità e di carisma scenico, comunque superata dalla precisa preparazione musicale.

Stefano La Colla è un buon Radamès e dimostra di saper ben utilizzare i mezzi vocali a sua disposizione. Il tenore pecca di squillo ed esuberanza, costretto più volte a mutare la fonazione delle S e delle Z intervocaliche da sorde a sibilanti, per favorire la facilità nel legato. Il timbro è bello specialmente nel registro centrale, mentre gli acuti sono preparati con grande attenzione. Nel duetto del terzo atto “Pur ti riveggo, mia dolce Aida...”, La Colla rinuncia allo slancio eroico del condottiero, per abbandonarsi a scelte di fraseggio più volte all’elegia. Scelta condivisibile, in relazione alle sua doti vocali. La prova scenica è buona, all’interno d’una regia molto statica, e arricchita da alcune iniziative personali, capaci di conferire maggiore personalità al ruolo.

Disastroso l’Amonasro di Alberto Mastromarino, che evidenzia un’emissione vacillante, dei fiati corti e affannosi, nonché un’intonazione precaria. Molto male nel suo ingresso nel secondo atto, peggiora vistosamente nel terzo, quando dà seguito ad alcuni errori nel libretto, che diventano sistematici durante il duetto con Aida “Rivedrai le foreste imbalsamate”. Scenicamente appare impacciato, quasi disorientato.

Incidono poco anche i due bassi Carlo Cigni (Il Re) e Sergey Artamov (Ramfis). Molto bravo e professionale il messaggero del sempre affidabile Francesco Pittari. Completava il cast Elena Serra (sacerdotessa).

Il corpo di ballo ben esegue le manierate coreografie di Susanna Egri, piacevoli nella scena del trionfo, completamente avulse dalla semantica del momento nel finale primo.

Negativa anche la concertazione di Julian Kovatchev, assai avara d’idee e incapace di mantenere un unisono accettabile nei duetti, arrivando all’anarchia completa nei concertati. Non sappiamo se sia stato effettuata o meno, ma supponiamo che una prova di assestamento pomeridiana in più avrebbe reso l’effetto musicale perlomeno accettabile.

Tecnicamente bene l’orchestra e bene anche il coro, diretto da Vito Lombardi.

Il coordinatore del corpo di ballo era il m° Gaetano Petrosino e i primi ballerini Amaya Ugarteche, Alessia Gelmetti, Evghenij Kurtsev e Antonio Russo.