Un ballo in maschera a Monaco di Baviera

Una splendida festa di morte

 di Andrea R. G. Pedrotti

Sottilmente inquietante, tesissima, complessa e ammaliante la lettura psicologica del regista Johannes Erath per il capolavoro verdiano a Monaco: un modello di messa in scena intelligentemente legata ai dettagli del libretto e della partitura, affinando perfino i movimenti scenici in base all'orchestrazione. Superlative, sia per recitazione sia per canto, le prove dei complessi del teatro bavarese e del cast vocale, con Piotr Beczala, Anja Harteros, Franco Vassallo, Okka von der Damerau e Sofia Fomina.

MONACO di BAVIERA, 27 luglio 2016 - È molto difficile cimentarsi nel resoconto di uno regia come quella di Johannes Erath per Un ballo in maschera andato in scena alla Bayerische Staatsoper. La scenografia, disegnata da Heike Scheele, è essenziale: un letto centrale, che sarà il fulcro dei tormenti di ognuno, con due lampade sferiche ai lati. A circondare la scena circolare, una grande scala a chiocciola che conduce a una finestra, sfondo dell’apparizione di Ulrica nel secondo quadro. Sulla destra una scala porta al sottosuolo, dalla quale faranno il loro ingresso, fra gli altri, il primo giudice e Oscar prima della scena del III atto “Il messaggio entri”. Sulla sommità del palcoscenico, esattamente a specchio, sta un letto identico a quello a terra, ma con il cadavere di Riccardo, nella medesima posizione in cui si potrebbe trovare un defunto dopo un suicidio.

L’idea di Erath pareva quella di ripulire quest’opera da tutti gli orpelli che ne avevano svilita la trama nelle ultime versioni: politica, riferimenti all’attualità, etc… Il regista ha scelto di utilizzare palesemente le medesime tecniche comunicative del neoespressionismo cinematografico tedesco, richiamato dal colore e dal disordine geometrico del fondo della scena e dalla foggia dei costumi a firma di Gesine Völlm. È un confronto e uno scontro di intersoggettività tormentate fra tre personaggi (Amelia, Riccardo e Renato) affetti da disturbo borderline di personalità e tutto ciò che noi vediamo esplicitato è frutto delle loro rispettive instabilità. L’unico dei tre a compiere effettivamente un gesto estremo è proprio Renato e l’unica a trattenersi dal compierlo è Amelia, ma solo in ossequio a ciò che potrà essere del figlio.

È l’applicazione di una sorta di Wort-Ton-Drama di stampo wagneriano, sia per la continuità dell’azione, mai interrotta, nonostante la presenza di numeri chiusi, sia per i temi ricorrenti nella musica e nei significati.

Partiamo da Riccardo, presentato attraverso il suo contorcersi su un letto, celato da una tenda candida, grande come il sipario, sulla quale si proiettano le immagini degli spettri degli invitati al ballo in maschera, i quali si muovono esattamente secondo le modulazioni orchestrali del preludio, bloccandosi quando i bassi orchestrali richiamano il tema ricorrente dell’opera. Riccardo gioca con un revolver e, quando risuona il tema di "La rivedrà nell'estasi" preme il grilletto, il colpo non parte e il conte reagisce con una piccola risata isterica. Egli è sempre tormentato dalle ombre dei congiurati che lo circondano. Nel primo atto manovra una maschera, un piccolo feticcio dallo sguardo arcigno, agghindato come lui, o vestito alla marinara; come un bambino, che potrebbe essere lui stesso o il figlio di Renato. La lista degli invitati gli è consegnata non dal solo paggio ma da tutto il coro che lo circonda, mentre Oscar gli lancia una vestaglia azzurra con dipinte le onde del mare. Questa vestaglia verrà scambiata con quella viola di Renato (come da libretto, in cui il mantello del segretario serve al governatore per sfuggire all'agguato), subito dopo il terzetto: “Tu qui? - Per salvarti da lor” del secondo atto. Impossibile non citare il finale: il duettino con Amelia “T'amo, sì, t'amo, e in lagrime” avviene sul letto (che funge anche da talamo nuziale), nel mezzo di convitati dai movimenti lenti, ovviamente mai fuori tempo, ma che poco o nulla hanno di umano e molto di spettrale. Quando Renato spara egli cade a terra e il fuoco dell’attenzione di sposta sull’omicida, quando l’intera visuale è libera, il tenore canta perfettamente eretto in piedi e senza un capello fuori posto, frattanto che un altro se stesso si contorce a terra. Nessuno lo vede, egli sale la scala, fino alla grande finestra e nessuno fra gli altri protagonisti può udire la scena finale “Ella è pura; in braccio a morte”. Al suo sortire il coro ricomincia a ballare, passando nei pressi del cadavere come se nulla fosse. Interprete perfetto per questa lettura di Riccardo è il tenore polacco Piotr Beczala, in forma smagliante la sera del 27 luglio, ancor più brillante rispetto alla recente prova viennese nello stesso titolo [leggi la recensione]. Lo squillo è sicuro, il fraseggio raffinato e passionale, l’emissione pulita, il suono perfettamente centrato e la resa scenica ottima. Bellissima la sua esecuzione appassionata e precisa della romanza “Ma se m'è forza perderti”, eseguita di fronte al bianco velo che ombreggiava la scena, mosso dallo stesso Beczala, prima che vengano palesate le danze.

In Renato il sospetto e la paura non serpeggiano (solo apparentemente) fin dal principio. Giunge sulla scena in un perfetto gessato grigio, mentre sullo sfondo si scorgono i tetti di Boston, apparire dalle finestre. Che il sospetto stia per esplodere dal suo inconscio lo rivela la controscena durante il duetto del secondo atto fra Amelia e Riccardo: “Non sai tu che se l'anima mia”. L’orrido campo è stanza nuziale di Renato ed egli si rigira nel letto, quasi fosse in preda all’incubo tormentoso del tradimento di Amelia. Viene letteralmente umiliato dal coro nel finale del secondo atto, con ognuno dei componenti della massa artistica bavarese impegnato in un crescendo di scherno crudele, con il baritono pietrificato al centro della scena. È splendida anche l’immagine dell’aria “Eri tu che macchiavi quell'anima”, quando, nel riferirsi all’ormai detestato Riccardo, alza la pistola al cielo e, in imperfettibile sincrono con gli accordi impetuosi dell’orchestra,  il letto, posto sulla sommità della scenografia, si illumina con il cadavere del governatore di Boston disteso a bocconi e la pistola in mano, mentre il suo ricordo dei giorni felici del suo sponsale sono evidenziati dal passaggio –visibile- di egli stesso che sale le scale con la moglie, presunta traditrice, fra le braccia. Sempre dal talamo nuziale partirà il colpo di pistola di Renato, il quale non viene preso in custodia da alcuno, ma oppresso claustrofobicamente dalle ombre del coro. Bravissimo anche Franco Vassallo a rendere il personaggio, scenicamente sciolto e calato nel ruolo, in maniera conforme all’idea di Erath. Vocalmente si fa apprezzare soprattutto per la solidità d’emissione e uno squillo tanto sicuro quanto sonoro.

Amelia è il personaggio che controlla maggiormente i propri istinti. Fatica a dormire, nel preludio al II atto e tenta di uccidere il marito soffocandolo con un cuscino, fermandosi appena in tempo. Il contesto diviene talmente angosciante, che anche quando Amelia si versa un sorso d’acqua, l’impressione è che si tratti di veleno. Non a caso Amelia canterà “Ahi sul funereo letto\ Ov’io sognava spegnerlo”. Il bianco velo, dietro cui si cela, è sempre quello che ospitava le ombre del ballo: simbolo nuziale o sudario di morte. Non a caso, presentandosi al ballo in maschera, indosserà nuovamente il bianco vestito del sentimentalmente obliato matrimonio. Eccellente come sempre Anja Harteros come soprano protagonista. Freschezza e facilità d’emissione non possono essere messi in discussione. Il suono corre sicuro in sala, i tre registri sono omogenei e di egual efficacia. Languore, passione e drammaticità sono eccellenti. La Harteros non è da meno scenicamente anche facendo compiere ad Amelia una sorta di strana vendetta, indicando per prima e con perentoria decisione Renato, come omicida del governatore di Boston.

Personaggio centrale dell’opera è Ulrica: è lei a passare la pistola a Riccardo nel preludio. Ella rappresenta l’inconfutabile fato. È la sintesi fra le tre Moire: come Cloto tesse il filo dell’intreccio e lo osserva, come Lachesi annuncia inesorabile il destino all’interno di un antro - sempre la medesima stanza - e scende imperiosa e inesorabile verso Riccardo, partendo dalla grande finestra sul fondo, dalla quale proviene una luce accecante. Come Atropo pone fine alla vita di Riccardo, accompagnando la sua anima sino all’antro da cui era scesa nel primo atto. Okka von der Damerau è interprete straordinaria del ruolo: perfetta in tutto, scenicamente, come vocalmente. La voce è bellissima e l’emissione palesa la gran preparazione tecnica del giovane mezzosoprano tedesco, magistrale anche per fraseggio ed espressione.

Con Oscar passiamo ai personaggi decisamente irreali. Il paggio è un folletto ermafrodita, subdolo, privo di qualsiasi traccia di sentimento positivo o simpatia. Non abbandona quasi mai il feticcio di Riccardo, fedele alla frase del III atto “Più non ti lascio, o maschera” con cui lo riprende con tono quasi di rimprovero dopo il quintetto in casa di Renato, in cui non appariva. Si arrabbia molto con questo demoniaco alter-ego di pezza, utilizzato quasi con la tecnica del ventriloquo (lo farà anche Riccardo in “È scherzo od è follia”), addirittura percuotendolo, poiché è il feticcio a dire “Il conte è qui” nel III atto. Oscar odia Riccardo in questa produzione, si muove come uno spiritello nevrotico osservando ognuno di sottecchi e insinuando il dubbio con appagamento. Nel I atto lancia un cuscino al conte con violenza e odio, senza burla. Splendido registicamente il suo ingresso per il quintetto del terzo atto, il suo muoversi meccanico e il suo esser abbigliato esattamente come il primo giudice, del quale imita l’ingresso sul palco. Parimenti splendido il suo salire in piedi sul letto, accingendosi a pronunziare la frase “Di che fulgor, che musiche\Esulteran le soglie”, accompagnato dalla sincrona accensione di una occhio di bue che accentua il fuoco prospettico sul paggio. La sua ambiguità emerge prepotente quando si presenta al ballo con scarpette da donna e un taglio dell’abito meno mascolino. Durante la canzone “Saper vorreste” del III atto, palesa il nocciuol femmineo e si lascia andare a un bacio appassionato a Renato (che non disdegna affatto). Uno strano gesto d’amore, quasi un bacio di Giuda verso chi sarà carnefice dell’uomo che detesta, senza un apparente motivo. Difficile immaginare un’interprete diversa da Sofia Fomina, insostituibile per fisicità e abilità scenica totalmente conformi a questa nuova,  interessante lettura di Oscar. Vocalmente il soprano russo è inappuntabile, ficcante nell’estremo acuto, così come nei centri, doma le colorature del ruolo con sicurezza e precisione.

Due personaggi divengono uno solo: Samuel e Tom non compiono alcun movimento che non sia in perfetto unisono, appaiono fin dal preludio, inquietanti e inquisitori. Conviene soffermarsi sul loro costume: frac, guanti bianchi, fiore di egual tinta all’occhiello, cilindro, il tutto sempre senza mantello. Questo era, fino a non molto tempo fa, il tipico abito dei becchini. Le loro movenze sono del tutto simili a quelli di Oscar, ma meno nevrotiche, incedono sempre con flemma, principalmente muovendosi in avanti o camminando, eretti e inesorabili, a passo indietro. Accavallano le gambe assieme, spesso si siedono sul letto, simbolo (fra gli altri) di morte. Impressionante il loro ingresso sulla frase “Scerni tu quel bianco velo\Onde spicca la tua Dea?”, nel II atto. Alla fine dell’opera si palesa il mestiere del loro abito: infatti sono proprio loro a ricomporre il corpo di Riccardo e a porlo sul letto centrale. Non avevamo mai assistito a una lettura più conforme e fedele al libretto: ci siamo mai chiesti quanti riferimenti alla morte vi siano nel testo di Anonio Somma? Quanto spesso si pronunci il termine “cadavere”?

Molti cantanti potrebbero essere scoraggiati dall’idea di affrontare i ruoli di Samuel e Tom, dopo l’insuperabile prova di Anatoli Sivko e Scott Conner. Scenicamente eccelsi, non sono da meno vocalmente grazie a una varietà di colori inquietante e terrifica, al pari dei ruoli da loro interpretati con tale maestria.

Completavano il cast i bravissimi Andrea Borghini (Silvano), Ulrich Reβ (Primo giudice), Joshua Owen Mills (domestico di Amelia), mentre il bambino in scena era Alexander Fischer.

Miglior interprete assoluto è stato, tuttavia, il sempre stupefacente coro della Bayerische Staatsoper, espressione di una delle prime fondazioni liriche al mondo. Pensiamo sia ingeneroso paragonarli a qualunque altro organico corale: una schiacciante manifesta superiorità li pone fuori classifica. Questo è un vero coro, un insieme che costituisce un unico personaggio, come nella miglior tradizione della tragedia greca, di cui l’opera lirica è moderna espressione. L’abilità scenica è disarmante, la dizione (come quella di tutti gli interpreti) perfetta come non accade di ascoltare nemmeno da un coro madrelingua. Già nel primo atto le loro movenze sono meravigliose ed è impressionante come riescano, con apparente quanto irrisoria semplicità, a non sbagliare niente, sfondando il confine dell’eccellenza. Lanciano e si scambiano le marsine nel prepararsi al cammino verso “l’antro dell’oracolo” formando delle ombre sul fondo che verranno riproposte prima del ballo conclusivo, ma senza nessuno a proiettarle. Si tolgono i cappelli a tempo di musica, seguendo le sezioni orchestrali (i bassi, quando suonano i bassi, gli altri quando siano impegnati gli altri strumentisti). Minacciano Riccardo (che non li vede) estraendo all’unisono le pistole, dopo essersi palesati come amici. Sono stupefacenti nel finale del II atto, con il loro ingresso lento e inesorabile, proiettato da una luce dal basso che sottolinea le loro silouette. Lo scherno a Renato è crudelmente ineccepibile, così come il loro vibrar le mani secondo il tremolio degli archi, o nell’eseguire “saltelli” su accordi più secchi, evidenziando l’irrealtà trascendente del tormento dei personaggi. Magistrali anche nel finale, nella loro esecuzione di un Charleston, che rammenta per semantica una Danse Macabre. In tutta sincerità è veramente difficile contenere una strabordante ammirazione per la professionalità, qualità e umiltà di questi coristi.

Molto bene anche il direttore Daniele Callegari, che, rispetto a Zubin Mehta che aveva diretto le prime recite, opta per delle dinamiche leggermente più serrate, specialmente nel II atto. Ovviamente molti colori sono stati possibili grazie alla straordinarietà della Bayerisches Staatsorchester, complesso degno dei colleghi coristi. Sicuramente l’orchestra del massimo teatro bavarese può definirsi una delle migliori del mondo, almeno nell’ambito del teatro lirico.

I figuranti impegnati facevano parte anch’essi dell’organico stabile del teatro.

Oltre al regista Johannes Erath, ricordiamo Heike Scheele (scene), Gesine Völlm (costumi), le bellissime proiezioni di Lea Heutelbeck, le meravigliose luci di Joachim Kleim e la drammaturgia di Malte Krasting.

Maestro del coro era Sören Eckhoff.

foto © Wilfried Hösl