La forma dell'acqua

 di Roberta Pedrotti

Non centra il bersaglio, pur partendo da un concretissimo presupposto drammaturgico e musicale, l'allestimento di Damiano Michieletto per l'enigmatico capolavoro rossiniano. Accuratissima e amorevole la concertazione di Michele Mariotti, che media fra equilibri vocali, scavo interpretativo e rapporto con la messa in scena. Al centro dell'attenzione, nel cast, l'incontro al vertice tenorile fra Juan Diego Flòrez e Michael Spyres.

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PESARO, 8 agosto 2016 - E vissero per sempre felici e contenti? Non è detto, e talvolta è meglio non sbirciare troppo dietro al sipario del lieto fine, per non avere amare sorprese. Talaltra le carte sono così scoperte che è difficile immaginare un epilogo positivo più spietato di quello del Maometto II rivisto per Venezia (dicembre 1822): la sconfitta dei turchi giunge in tempo ad impedire il sacrificio di Anna, che si trova così condannata a vivere amando il nemico vinto ma unita in matrimonio a un altro, sposato con la certezza d'essere in punto di morte. In questa situazione, cosa canta l'eroina? Esattamente il rondò finale della Donna del lago (ottobre 1819), con quella pausa fatale “Ah! chi sperar potea tanta mia... felicità”. Lo stesso era già stato destinato, nel dicembre del 1819, a esprimere la dolorosa decisione di Bianca di rinunciare all'amato Falliero e, nella stretta, il repentino, favorevole, ribaltamento della sorte (con un testo che, su musica identica, non dà adito ad alcuna ambigua esitazione “A tanto mio contento, non presto fede ancor”). Come giustamente, con toni vivi e vibranti, ha ribadito Alberto Zedda intervenendo al termine della conferenza di presentazione di questa Donna del lago al Rossini Opera Festival, l'autoimprestito non può e non deve essere guardato con sufficienza o con curiosità collezionistica come prassi di comodo, ma deve essere considerato parte naturalmente integrante dell'estetica rossiniana: la riproposizione di un brano, di un tema o di un qualsivoglia elemento musicale ne amplifica la portata semantica in contesti diversi, lo arricchisce e lo rafforza, non ne fa mai una semplice tassello più o meno intercambiabile. Nel nostro caso specifico potenzia e riverbera l'ambiguità del “tanti affetti” che affollano il cuore di Elena, la bellissima donna del lago promessa sposa al capoclan Rodrigo nonostante un tenero affetto la leghi al giovane Malcom e nella cui vita piomba, destabilizzatore e risolutore, un re innamorato, colmo di romantica passione e di illuministica, metastasiana clemenza e responsabilità. Basta ascoltare La donna del lago per intuire che fra il sovrano e la fanciulla vi sia un'affinità elettiva, basta leggere la partitura per averne certezza assolta: Rodrigo è l'antagonista, ma i sentimenti di Elena verso gli altri due uomini sono ambigui, inquieti, sfuggenti, l'unione finale con Malcom comporta una rinuncia, non significa solo felicità.

È da questo punto di partenza incontrovertibile che parte il lavoro di Michele Mariotti e Damiano Michieletto per lo spettacolo inaugurale del XXXVII Rossini Opera Festival, con una particolare attenzione a quell'aria di malinconica nostalgia che sembra avvolgere, in una tinta tutta particolare, l'intera partitura. Ecco allora che la vicenda prende vita dal ricordo e dal rimpianto di Elena e Malcom, ad anni di distanza dagli eventi che propiziarono la loro unione ma vi gettarono anche ombre mai dissipate. Ecco che, a conti fatti, ci si chiede se sia il caso di curiosare dietro il sipario del lieto fine, perché se lo spunto iniziale è di patente evidenza (chi, ascoltando “Cielo in qual estasi” o “Nume, se ai miei sospiri”, per non parlare della ripresa finale dei "Mattutini albori" da parte del tenore in "Aurora, ah! sorgerai", non ha mai percepito un profondo unisono affettivo fra Elena e Giacomo, una fascinazione e un turbamento reciproco?), lo sviluppo inciampa là dove non ci saremmo aspettati da un regista come Michieletto. Tutta l'ambiguità di un sogno d'amore che non si è avuto nemmeno il coraggio di sognare, di un palpito ribelle subito sublimato nel pensiero di un altro cui rimanere fedele dovrebbe costituire l'atmosfera liquida del lago e delle brume scozzesi in una leopardiana, conturbante, indefinita vaghezza. Invece Michieletto tende a dar forma alla mobilità inafferrabile della nostalgia, del desiderio, del rimpianto e del non detto. Le onde in cui si specchiano la memoria e i sottintesi arrivano a svelare troppo: Elena e Giacomo si baciano subito, più volte, si lascia intendere che vadano anche ben oltre, sicché le successive affermazioni di lei “Te amante io non sapea […] Credea che gentilezza...” lasciano pensare, se non a un'incoerenza, più alle avventure di una ragazza parecchio disinvolta che non a una sottile poesia di sentimenti. Ed è la poesia, in effetti, quel che soprattutto manca in uno spettacolo che, invece, vorrebbe partire da una nota psicologica poeticissima, ma non la lascia libera, vuol darle forma, troppa forma. Così porta sulla scena, insistentemente, Elena e Malcom anziani senza calibrare i loro interventi perché non divengano troppo invasivi, perfino grotteschi. Così il finale, la felicità a stento proclamata da Elena mentre il coro le ripete in eco avversità (poco importa che, nei versi, sia cessata, conta in musica il perentorio accostamento percepito) si concretizza nel salottino insulso degli anziani coniugi, con il coro che scompare in lontananza mentre la giovane si ritrova invecchiata e insoddisfatta (tramite un cambio parrucca che, visto e rivisto ad opera di Edita Gruberova in diversi titoli negli ultimi tempi, risulta ormai teatralmente logoro, al pari della posa fotografica e del lampo di magnesio nel largo concertato del finale primo): l'intento poteva essere angoscioso, l'effetto è quello della tragedia che mutò in commedia, senza particolare emozione. Ciò nonostante un impianto scenico di tutto rispetto, scandito sui tre livelli concentrici dell'asettico soggiorno, di rovine residenziali (si pensa un po' al Sigismondo con la regia dello stesso Michieletto, ma anche al Dickens di Grandi speranze o alla Bronte di Cime tempestose) invase negli anni dalla vegetazione, di un canneto lacustre (un ammiccamento al bel Lohengrin allestito alla Scala da Guth?) a cura di Paolo Fantin, o l'accurata, estrema astrazione delle luci di Alessandro Carletti, che spaziano dal più neutro realismo a ombre soffuse, a lampi verdi o violacei in rapporto tanto meticoloso con la musica da rasentare la maniera.

Ciò non avviene nella cura meticolosa del dettaglio realizzata da Michele Mariotti, che pare portare ogni singolo suono in punta di bacchetta, tornirlo, illuminarlo senza trascurare una battura, un accostamento, un dettaglio agogico. Tutto ciò anche a rischio di scoprire qualche inciso strumentale reso magari in modo non cristallino, ma il lavoro complessivo vale il pericolo di un momento. Basterebbe citare la ricercatezza delle arcate, nei “Mattutini albori”, là dove si allude al gorgoglìo delle acque, o a certi colori dei legni poco dopo e nei contrasti strumentali del duettino Elena/Giacomo del secondo atto. O, ancora, il nervosismo bruciante di certi passi nei numeri d'assieme (“Quest'amplesso a te fia pegno” o “Parla, chi sei?”) accostato al carattere estatico di altri, o alla caratterizzazione, insieme con Flòrez, della passione privata del re rispetto al suo pubblico, flemmatico distacco. Tutto ciò, così come l'accurata spazializzazione e la strumentazione meditata nella sua asprezza lucente dei complessi previsti in palcoscenico, si proietta con totale abnegazione in sintonia con la scena, sortendo il curioso paradosso di una sincronia fisica – meccanica, si direbbe – sulla base di comuni e condivisi intenti e, tuttavia, non affine nello spirito più profondo. La ricerca continua di una musicalità cangiante, veramente liquida e iridescente di mille dettagli, da parte di Mariotti si incunea, per così dire, nella costruzione formale di Michieletto, parimenti ricchissima di dettagli, ma tali da lasciare l'impressione di una gabbia entro la quale scorrano i suoni nel tentativo di animarne il progetto, in origine suggestivo ma nella realizzazione dispersivo.

Si ascolta, dunque, la drammaturgia dei suoni, e si ascolta anche la cura amorevole delle diverse caratteristiche degli interpreti, armonizzate in un discorso unico nel quale emerge il dualismo perfetto fra i tenori.

Rodrigo, l'antagonista, l'irruente, il ribelle, l'arrogante, anche, s'impone subito con l'ampiezza del suo registro baritenorile, con i suoi salti micidiali, che sono il sale della vocalità di Michael Spyres. Sarà anche vero che, da un paio d'anni a questa parte, si è accentuato lo scarto fra l'ampiezza dei suoi affondi più tenebrosi e un registro acuto sempre puntuale, ma in falsettone più sottile; sarà anche vero che l'artista coscienzioso farà bene a gestire con cura questi estremi, ma l'omogeneità assoluta è una chimera che poco interessa questa scrittura abnorme tutta basata sui contrasti. Piuttosto si gode del tono spavaldo, sempre elettrizzante, del tenore statunitense, della sua capacità di conferire di volta in volta diversi caratteri – isterici, regali, protervi, amorosi – a questa spericolata fantasia tenorile, sempre al servizio della musica e del personaggio.

Juan Diego Flòrez, viceversa, gioca in punta di fioretto. Le frequentazioni sempre più assidue del repertorio lirico e francese lo portano a puntare meno sull'agilità e sul virtuosismo brillante dei primi anni. Ha scoperto, però, una maggior propensione, perlomeno nel registro centrale, per il cantar piano, suo antico tallone d'Achille. Quando Mariotti diluisce i tempi e i volumi, Flòrez si trova perfettamente a suo agio, si fa elegiaco, giostra le sue armi articolando fraseggio e accenti con esiti più convincenti, da questo punto di vista, rispetto alle altre sue prove italiane in quest'opera (a Pesaro e alla Scala). La sua maniera d'interprete è opposta e complementare a quella di Spyres - riserbo ed estroversione, sicurezza e imprevedibilità, ricerca dell'eleganza e ricerca del brivido, con tutte le sfumature che le diverse sensibilità e inclinazioni del pubblico vorranno riconoscere loro nel bene e nel male - come lo è la sua vocalità, con i caratteristici acuti presi di slancio a far da suggello, seppur meno preponderante di un tempo.

Completano il quadro delle voci maschili il Duglas di Marko Mimica, naturalmente adeguato alla parte ma dal quale attendiamo ancora la piena risoluzione di qualche incertezza d'intonazione intorno al passaggio (che gioia, però, sentire come Mariotti doma la tronfia orchestrazione della sua aria, scritta da un collaboratore di Rossini con l'assurdità di ben sei corni unisoni!) e Francisco Brito quale Serano e Beltram.

Tutte – relativamente – nuove le voci femminili. Salome Jicia, Contessa di Folleville con l'accademia rossiniana lo scorso anno [leggi la recensione], ha un che di fragile e tagliente nel timbro, una sorta di nervosismo nella coloratura che la rendono nel complesso ben appropriata alla visione che Michieletto offre del personaggio. Certo, ci sarebbe piaciuto saggiare anche qualche passaggio più morbido e legato, ma la sensazione era che talora – forse per una comprensibile emozione – l'appoggio non la soccorresse appieno. Per di più l'ingiustamente vituperato Tottola, altrove abile rielaboratore di Racine, è librettista finissimo nell'articolare versi dall'andamento poco convenzionale, anticipazione delle metriche romantiche dei vari Maffei a venire: uno scoglio ulteriore per una cantante non scioltissima nella prosodia italiana, che attendiamo di riascoltare in futuro.

Varduhi Abrahayam, Malcom, deve far attenzione a non aprire troppo l'estremo grave, sia perché l'esito appare non troppo elegante (e nel belcanto l'eleganza è virtù non secondaria) sia perché l'acuto perde di punta e penetrazione, limiti avvertibili più nella sortita che nell'aria del secondo atto, nel cui cantabile mette in luce, invece, un bel modo di porgere e un timbro interessante. La coloratura dimostra buone intenzioni, che potranno essere messe a frutto affinando meglio trillo e sostegno. Nel complesso, porta a compimento la recita con sicurezza, ma con un ampio margine di crescita e maturazione.

Come Albina Ruth Iniesta conferma l'ottima impressione destata lo scorso anno quale Madama Cortese con l'Accademia.

Il coro (del Comunale di Bologna, come l'orchestra) preparato da Andrea Faidutti non è favorito dalla posizione spesso nascosta e arretrata, ma contribuisce comunque al successo di una recita che apre questo Rossini Opera Festival fra consensi pressoché unanimi, con punte d'entusiasmo per tenori e concertatore, vivissimo calore per Jicia e, soprattutto, Abrahayam e generali apprezzamenti anche per gli artefici della parte visiva (con cui ricordiamo Klaus Bruns, autore di costumi poco interessanti) e gli interpreti di Elena e Malcom anziani: Giusi Merli, nota per la sua partecipazione alla Grande bellezza di Sorrentino, e Alessandro Baldinotti.

foto Amati Bacciardi