Le nozze in sogno a Innsbruck

La chiarezza della commedia

 di Francesco Lora

Il Festival di Musica antica di Innsbruck restituisce alle scene Le nozze in sogno, partitura adespota da poco ricondotta a Pietro Antonio Cesti. Lo spettacolo è tanto economico quanto eccellente, nella concertazione di Enrico Onofri, nella regìa di Alessio Pizzech e nel gioco di squadra della compagnia di canto.

INNSBRUCK, 22 agosto 2016 – Soprattutto la produzione musicale della seconda metà del Seicento abbonda di partiture spurie, perdute, adespote o misconosciute, a dispetto di una loro storia che è ancora possibile individuare, percorrere e apprezzare. È il caso dell’opera Le nozze in sogno: partitura tramandata in un trascurato manoscritto anonimo oggi a Parigi, la si è da poco scoperta concordante con quella approntata da Pietro Antonio Cesti, anno 1665, per l’Accademia fiorentina degli Infocati. Restituito un titolo al catalogo del compositore – in quegli anni il massimo operista italiano in attività, accanto a Francesco Cavalli – il Festival di Musica antica di Innsbruck ha colto la palla al balzo: in quarant’anni di attività ha restituito alle scene numerosi titoli cestiani, quasi tutti legati all’Austria e alla corte imperiale, e non ha perso l’occasione di allestire anche questo inedito. Tre recite, dunque, nel cortile della Facoltà di Teologia del capoluogo tirolese: 19, 21 e 22 agosto, all’aperto, in disinvolta sfida alla notturna frescura alpina; e due ulteriori repliche a Salisburgo, in coproduzione, giorni 25 e 26, per l’Accademia estiva del Mozarteum.

È stato ritrovato un capolavoro musicale degno dell’Orontea? No: ma ciò non sminuisce il valore dell’iniziativa. Le nozze in sogno afferisce infatti al genere della commedia con ambientazione toscana, caratteri imitati dal quotidiano dell’epoca, ruoli e scene buffonesche, peripezie instancabili mosse fra ambiguità, travestimenti, conflitti generazionali, scorrettezze politiche e un colpo di genio risolutivo: i giovani Flammiro, Lucinda, Lelio ed Emilia trascinano i loro tiranni in un finto sogno, ove estorcono loro, con firma e controfirma, un concretissimo permesso alle doppie nozze. Tanto densa è la macchina della parola e del teatro, che la musica e i suoi affetti seguono in secondo piano: recitativi pieni di movimento e un numero limitato di arie notevoli, con la cifra di un compositore sovrano ma qui in aria di semplice disimpegno.

Ecco dunque un’opera nella quale le difficoltà risiedono nell’azione vorticosa anziché nella scrittura musicale. Il Festival intasca il suo primo successo nella soluzione di questo nodo cruciale: lo spettacolo con regìa di Alessio Pizzech e scene e costumi di Davide Amadei è infatti il congegno perfetto che assicura la tenuta scenica della riproposta. Pare d’assistere a un pedagogico ceffone al Regietheater, lo stesso che proprio a Innsbruck trova altre volte terreno fertile: in queste Nozze in sogno il lavoro con gli attori è strenuo, tutto attento alla naturale aderenza tra parola e gesto, non senza l’abilità di distinguere, a tratti e per gioco, l’identità del personaggio da quella dell’interprete (immedesimazione condizionata: il teatro barocco se ne avvantaggia); nella compiaciuta inverosimiglianza della girandola di situazioni, autentico labirinto della mente e dell’attenzione, ogni dettaglio è restituito con una chiarezza esemplare, senza frange né sconti, garantendo la divertita comprensione del testo nella sua interezza e complessità.

Il modello di lavoro è tanto più encomiabile per l’estrema economia di mezzi. La scena presenta non altro che un accumulo di casse, ma esse bastano a descrivere la vivacità del porto di Livorno, con la sorpresa di rivelare al loro interno le dimore dei personaggi; i costumi, a loro volta, sono della fattura grossolana che si addice alla commedia dell’arte, e proprio da ciò deriva la loro efficacia di caratterizzazione in faccia a più alte mire di sartoria. La compagnia di canto, a sua volta, è formata non da virtuosi di conclamata fama, né da giovani inesperti dietro i quali mascherare le carenze: al contrario, la costituiscono artisti in corso di onorevole carriera, già noti a chi segua percorsi barocchi nei teatri europei, e disposti a un cimento particolare nella frenesia della commedia.

Il gioco di squadra è così inestricabile che l’insieme dei cantanti ha maggior valore della somma dei meriti dei singoli. Pure, varrà la pena di ricordare il controtenore Rodrigo Sosa Dal Pozzo, come Flammiro, per la molle varietà di umori tra patetismo e risolutezza; il soprano Arianna Vendittelli, come Lucinda, per il privilegio della madrelingua e lo scoppiettio del porgere; il mezzosoprano Yulia Sokolik, come Emilia, per la simpatica sovrapposizione del proprio rigore con le esitazioni del personaggio; il tenore Francisco Fernández-Rueda, come Filandra, per l’esilarante contributo alla tradizione delle spregiudicate nutrici en travesti; il tenore Bradley Smith, come Lelio, per la stilizzata nobiltà della linea di canto; il baritono Ludwig Obst, come Fronzo, per i modi ruvidi che nuocerebbero a un più alto discorso musicale ma non al rozzo carattere assegnato; il controtenore Konstantin Derri, come Scorbio, per la fanciullesca evanescenza di timbro che fa più scanzonata la parte; il basso Rocco Cavalluzzi, come Pancrazio, per una voce ricca e fonda prestata tuttavia più all’attore disinibito che al cantante compiaciuto; infine il tenore Jeffrey Francis, come Teodoro e Ser Mosè, per il camaleontismo dalla parte del vecchio burbero a quella dell’ebreo intrigante.

Il celebre violinista Enrico Onofri si presta come concertatore, alla testa dell’ensemble strumentale Innsbruck Barock: due violini, un violoncello, un violone, un clavicembalo, un’arpa, tre tiorbe, due flauti e una dulciana; un organico che assortisce qualcosa di più, nel numero e nei timbri, di quanto probabilmente – secondo l’uso italiano dell’epoca – si ascoltò nelle recite fiorentine del 1665. Bello è osservare come lo sciolto eloquio dei cantanti nei recitativi, in apparenza dovuto a mero istinto, risulti invece millimetricamente regolato dal gesto di Onofri; e come la sua realizzazione musicale distribuisca pesi e colori del basso continuo, in strumenti differenti, senza che ciò prescinda dalle necessità del canto e dagli intenti del teatro.

foto Rupert Larl