Fidelio a Roma

Unus sed Leo

 di Stefano Ceccarelli

Fragorosi applausi chiudono la seconda delle recite del Fidelio di Ludwig van Beethoven, opera-monumento all’umanità per i suoi ideali di libertà magnificamente cantati. Sir Antonio Pappano e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia non potevano trovare modo migliore per dare avvio alla nuova stagione. Un cast di tutto rispetto, l’ottima orchestra e l’eccellente coro dell’Accademia concorrono, sotto la vigile, tesa, concentratissima concertazione di Pappano, a stagliare una performance di valore assoluto, per fortuna eternata da una ripresa per Rai5 e da una registrazione per RadioRai3.

ROMA, 22 ottobre 2016 – L’unica opera lirica composta da uno dei più amati musicisti di tutti i tempi: il Fidelio di Ludwig van Beethoven. L’Accademia di Santa Cecilia non poteva affidare al suo stabile Maestro, Antonio Pappano, compito più affascinante per aprire, con tutti gli allori, la stagione dell’istituzione punta di diamante della musica in Italia e nel mondo.

La storia di una donna che si traveste da uomo per liberare da odiate catene il suo sposo ingiustamente imprigionato (che – a detta del suo primo librettista Bouilly, che verga «fait historique» sulla partitura del compositore Gaveaux – dovrebbe essere una storia vera), attrasse subito l’immaginazione di Beethoven, fervente credente degli ideali della Rivoluzione Francese. Questa donna fortissima, Leonore/Fidelio, lo conquistò a tal punto che riuscì a terminare e a far rappresentare – non senza un estenuante lavoro di labor limae – l’unica opera (un classico Singspiel) della sua vita.

Per far brillare adeguatamente un’opera della bellezza e complessità del Fidelio è necessario un eccellente direttore a capo di una straordinaria orchestra e di un ottimo coro. Per nostra fortuna, l’Accademia mette a disposizione non solo il maestro Pappano, ma anche i suoi straordinari complessi. Tutto il talento di Pappano si riversa in una partitura dagli equilibri delicatissimi: l’italo-inglese ci fa assaporare ogni nota del Fidelio fino in fondo. Sa calibrare la complessa orchestrazione beethoveniana, quasi inusuale per un’opera lirica dell’epoca, facendo emergere talora la sola trama sonora che accompagna le voci, talaltra tutta la potenza della vis beethoveniana, che in quest’opera s’è declinata in infiniti accenti, tanti quanti sono i sentimenti dell’animo umano che l’ambientazione chiusa, claustrofobica di una prigione spagnola, concorre ad esaltare: l’amore, la fedeltà, la gelosia, il rancore, la vendetta, la pietà, la compassione. Ciò di cui è capace l’orchestra dell’Accademia sotto l’attentissima direzione di Pappano l’abbiamo potuto sentire (noi presenti in sala e il pubblico televisivo/radiofonico) nell’ouverture, la Leonore n. 4, e nell’intermezzo che la prassi – cara a Mahler – vuole calarsi appena prima del finale II, null’altro se non la terza versione dell’ouverture del Fidelio, il Leonore n. 3. Di immensa freschezza e brillantezza il piglio con cui Pappano dirige la Leonore n. 4: l’ingresso dei corni, la climax che porta a una gioia ritmica a tutt’orchestra che è puro pensiero in note, tutto è esaltato. O l’epica forza, la potenza più scultorea che traspare dalla sua direzione della Leonore n. 3: l’atmosfera che prepara l’entrata delle trombe – straordinario coup de théâtre – e i sussulti eroici sono smaglianti.

Il cast vocale è all’altezza dei complessi e del direttore, con punte di eccellenza nella compagine maschile. Simon O’Neill canta, infatti, un indimenticabile Florestan: quel sol acuto naturale in messa di voce (sulla parola Gott), che apre la famosa aria «In des Lebens Frühlingstagen», è tra i suoni più belli che abbia mai sentito in vita mia. O’Neill canta con straziante dolcezza la rievocazione dei suoi momenti di gioia nella parte finale dell’aria, la richiesta d’aiuto dopo il pane ricevuto («Euch werde Lohn in bessern Welten»), con incomparabile tenera gioia il ritrovamento della sposa soterica («O namenlose Freude»!»). La protagonista indiscussa della partitura è Leonore/Fidelio. Rachel Willis-Sørensen, però, non ne incarna l’interprete ideale: la potente aria di sortita «Komm, Hoffnung, lass den letzten Stern», per esempio, ne svela tutti i limiti, tanto nella durezza di alcuni acuti, quanto nella mancanza di potenza e appropriato colore nelle zone medio-basse (s’ascolti, al confronto, la Leonore di riferimento, Christa Ludwig, o quella stupenda della Janowitz). In generale, poi, non cesella sempre bene il canto; eppure si armonizza bene negli ensemble e si lascia docilmente dirigere da Pappano. Anche la Marzelline di Amanda Forsythe non è straordinaria, ma riesce a giocare splendidamente col fraseggio e con la borghese leggerezza del canto scritto per questa parte: l’aria «O wär ich schon mit dir vereint», pur non essendo cantata a voce piena, è apprezzabile per il gioco delle mezze voci e i vezzi canori di cui è capace. Il Rocco di Günther Groissböck ha notevolissima potenza vocale, una cavernosità timbrica che fa buon gioco in un ruolo senile, perennemente altalenante fra sentimenti differenti (l’obbedienza e l’onore/carità): il suo personaggio è vocalmente riuscitissimo, con una certa scioltezza di fraseggio che palesa nella nota “Gold-Arie” «Hat man nicht auch Gold beineben». Il Don Pizarro di Sebastian Holecek si distingue per potenza vocale e squillo della voce, nonché per un timbro decisamente viperino, consono all’ethos del personaggio: lo attestano l’aria «Ha, welch ein Augenblick» e l’attacco del quartetto «Er sterbe! Doch er soll erst wissen». Il Don Fernando di Julian Kim è serafico, soprattutto grazie a un timbro morbido e a un morbido fraseggio che contraddistinguono il coreano. Squillante, estroverso lo Jaquino di Maximilian Schmitt, che è riuscito a dar plasticità vocale al bonario carattere del personaggio.

Pappano è risultato magnifico nella resa degli ensemble, dove i singoli interpreti hanno saputo far benissimo: sopra tutti il quartetto «Mir ist so wunderbar», dov’ha colto perfettamente l’atmosfera dilatata e sospesa, come pure il già citato quartetto dell’agnizione di Leonore («Er sterbe») o lo splendido finale II, con l’intervento spiegato del coro. Un coro al solito magnifico, capace di evocare tutte le atmosfere pensabili e di calarsi in ogni ruolo: non solo, appunto, la letizia del finale II, ma anche il coro dei prigionieri che apre il finale I («O welche Lust, in freier Luft»), con quella palpabile gioia di gustare i tiepidi raggi del sole subito turbata dal passaggio vigilante delle sentinelle.

Gli applausi finali sono stati scroscianti: tutti in piedi per omaggiare l’immenso talento di Pappano, dell’orchestra che ha cresciuto e perfezionato, dell’incredibile coro e dei solisti. Unica opera lirica di un genio (per questo: unus sed leo), Fidelio esalta nella sua pienezza, ancora tutt’oggi, come monumento al trionfo della giustizia, di una giustizia illuministica: il messaggio di liberazione dall’oppressione – attuale oggi come sempre nella storia dell’uomo – conferisce a Fidelio «la forza morale di un archetipo» (S. Cappelletto).