A Midsummer Night's Dream

L'asino, la fata e l'armadio

 di Roberta Pedrotti

L'omaggio di OperaLombardia a Shakespeare attraverso la complessità del capolavoro di Britten è pienamente riuscito grazie alle virtù teatrali e musicali di un cast giovane perfettamente assortito e guidato dall'ottima bacchetta di Francesco Cilluffo. Fondamentale anche l'apporto della messa in scena di Elio De Capitani e Ferdinando Bruni.

BRESCIA, 6 novembre 2016 - Quindici personaggi di cui nessuno si può definire secondario, un coro di voci bianche con quattro prime parti, un'orchestra a ranghi ridotti ma preziosissima – e dunque assai esigente – nella scrittura secondo le consuetudini britteniane, la fonte shakespeariana rispettosamente adattata dal compositore in collaborazione con Peter Pears, una durata complessiva che può sfiorare le tre ore di musica. Allestire A Midsummer Night's Dream non è un'impresa da poco, soprattutto per un teatro non anglosassone (e con un cast che conta giusto un paio di madrelingua), per un circuito regionale dai mezzi non opulenti; eppure la sfida di proporre questo Britten nel quattrocentesimo dalla morte di Shakespeare è stata vinta senza riserve, come testimoniano la buona affluenza di pubblico e soprattutto la calorosissima accoglienza finale registrate al Grande di Brescia.

Elio De Capitani e Ferdinando Bruni già avevano curato la messa in scena del debutto di The Turn of the Screw nei capoluoghi lombardi, ora fanno felicemente il bis e il Grande ancor più felicemente alterna le recite dell'opera con quelle della commedia nell'allestimento dell'Elfo di Milano sempre a firma di De Capitani, Bruni e Carlo Sala per le scene, creando un vero e proprio evento intorno al debutto bresciano dell'opera.

I diversi piani del fantastico onirico e del reale nobile e popolano sono sapientemente intrecciati attraverso la connotazione delicatamente contemporanea delle tre coppie umane (Theseus/Hippolyta, Hermia/Lysander, Helena/Demetrius) e della filodrammatica degli artigiani, mentre il mondo sovrannaturale ha i tratti dell'immaginario fantastico inglese e si richiama per lo più all'Ottocento. Le fate sono fanciulli in abiti da notte, talvolta barbette posticce (nel corteggio di Tytania allignano giovani streghette del Macbeth?) o tube e bombette, come i Bimbi Smarriti di un Peter Pan che potrebbe essere il mercuriale Puck con corna da diavoletto (l'attore Simone Coppo); il loro regno sembra un vecchio salotto con poltrone, cassettoni, un armadio varcato da Lysander ed Hermia che, come nel romanzo Le cronache di Narnia, si avventurano seguiti da Helena e Demetrius in una dimensione fiabesca, nella quale capitano, loro malgrado, anche Bottom e gli altri artigiani. Pian piano la facciata blu di una villa patrizia neoclassica lascia il posto a cortine di rampicanti, il sogno e l'inconscio hanno il sopravvento. E, naturalmente, la commedia si sviluppa in un crescendo perfettamente calibrato nel ritmo e nell'alternanza espressiva grazie a una cura eccellente della recitazione, sia nella gestualità sia nelle interazioni, tanto che il fatto di avere un'Hermia (Cecilia Bernini) decisamente più alta di Helena (Angela Nisi) – al contrario di quanto il testo proclamerebbe – non intacca minimamente la credibilità del bisticcio fra le due a base di frecciate sulla statura. Entrambe sono davvero bravissime nel caratterizzare senza stereotipi, anzi con brio e autentica, umana carnalità, la fanciulla bella e pura contesa da due spasimanti e improvvisamente, per magico incanto, da ambedue sprezzata, così come l'amica meno appariscente, petulante amante respinta, improvvisamente al centro delle attenzioni maschili e infine ricambiata, nel doppio lieto scoglimento, dal suo Demetrius. Questi è un Paolo Ingrasciotta godibilissimo nel suo mutare atteggiamento con assoluta disinvoltura, un dandy un po' spaccone che si contrappone a meraviglia al Lysander irruente e più sempliciotto di Alexandros Tsilogiannis: il primo baritono, il secondo tenore, condividono la freschezza di una bella vocalità dall'emissione schietta e naturale, oltre che dall'articolazione chiara ed espressiva.

La coppia ducale composta da Federico Benetti e Arina Alexeeva fa, nondimeno, bella figura con l'eleganza composta che ci si attende dal loro rango, ben abbinata all'affabilità nei confronti delle due giovani coppie.

Fra i popolani spicca, né potrebbe essere altrimenti, il Bottom di Zachary Altman: bella vocalità autorevole, con quel tanto di rude che serve a caratterizzare il tessitore mutato in asino senza farne una macchietta, bensì un'immagine sorridente di una virilità istintiva, un po' vanagloriosa, ma genuina. Tutto il gruppetto degli artigiani/attori è, però, un vero spasso e lo dimostra nella recita di Piramo e Tisbe, che non delude le aspettative e si conferma uno dei punti di forza della partitura, irresistibile ironia britteniana sul teatro e sulla tragedia, nonché su certi modi melodrammatici ottocenteschi: Nicholas Masters, Quince, Roberto Covatta, Flute, Rocco Cavalluzzi, Snug, Claudio Grasso, Snout, e Dario Shikhmiri, Starveling sono uno più bravo dell'altro.

Folti ricci fulvi preraffaelliti, verde acqua il costume e il trucco, Anna Maria Sarra è una Tytania lieve e leggiadra, ma non per questo priva d'autorità, dolcezza e sensualità; insomma: una vera fata. Degno compagno le è Raffaele Pe, un Oberon splendidamente ambiguo, tanto che, complice la celesta che connota il mondo fatato del Midsummer come quello spettrale di The Turn of the Screw, verrebbe da associarlo a Peter Quint, o all'insidioso Erlkönig di Schubert da Goethe. Il lato demoniaco è dissimulato e controllato dalla regalità e dalla benevolenza, ma Pe, interprete intelligente, lascia aperta la via del turbamento, favorito anche da una caratterizzazione scenica che fa pensare a un personaggio gotico di Tim Burton o al Lestat di Intervista col vampiro.

Lodato, dunque, un cast ineccepibile sotto il profilo vocale e musicale, oltre che fisicamente perfetto, con la prova altrettanto completa del coro dei bimbi istruiti da Raul Hector Dominguez, non si potrà non rendere merito al trentasettenne Francesco Cilluffo, sul podio, per aver guidato al meglio un'opera tanto lunga e complessa, per di più con un cast in media assai giovane. Non solo ha saputo costituire un punto di riferimento sicuro per tutti gli interpreti – davvero significativi gli sguardi che gli rivolgevano delle piccole soliste impegnate come quattro fatine – ma ha anche tratto il meglio dall'orchestra dei Pomeriggi Musicali, sottolineando con finezza le allusioni al barocco inglese, Purcell in primis, così come le pose operistiche di Piramo e Tisbe (a proposito, deliziosa la citazione, nel costume di quest'ultima, delle sorellastre della Cenerentola rossiniana – Clorinda e, appunto, Tisbe – secondo Ponnelle), gli ariosi, le dolcissime berceuse, la libera prosodia musicale che innervano la commedia. Unità nella varietà, saggia amministrazione della drammaturgia musicale fra sogno, incanto, sentimento e comicità: davvero un ottimo lavoro.

E, come si è detto, grande successo: la celebrazione delle triplici nozze ateniesi si conclude, i riconciliati sovrani delle fate riguadagnano la scena e si accomiatano dal pubblico, questo esplode in un calorosissimo applauso. Britten, d'altra parte, non fallisce mai se gli si sa render giustizia come è avvenuto con questa produzione.

foto Umberto Favretto