Ferruccio Furlanetto e Nicola Alaimo

Il coraggio d’amare

di Valentina Anzani

Alla Lyric Opera di Chicago Ferruccio Furlanetto incanta in Don Quichotte.

Chicago, 28 novembre 2016 – La figura e le (dis)avventure di quel Don Chisciotte della Mancia creato da Cervantes sono più o meno note: a inizio Seicento un hidalgo è tanto affascinato dalla lettura di romanzi cavallereschi che decide di trasformarsi in uno di quei cavalieri erranti generosi e pronti a mettersi al servizio di chi soffre; ma egli è fuori tempo massimo, la società in cui vive è regolata da altre leggi, ed egli viene relegato tra i folli e i sognatori.

Tre secoli dopo la pubblicazione di Cervantes prese forma l’opera di Jules Massenet Don Quichotte, attualmente sul palco della Lyric Opera di Chicago. Il libretto di Henri Cain a sua volta adatta una pièce teatrale di Jacques Le Lorrain, ma qui i personaggi, pur mantenendo gli stessi nomi, hanno caratteri ben diversi, e se appaiono molto meno folli, sono però molto più umani. Don Quichotte, certo un po’ strambo, è davvero un cavaliere, e non combatte solo contro nemici immaginari, ma anche contro veri banditi – come quelli che affronta per riavere la collana dell’amata Dulcinée – e li vince.

Dulcinée è una vera bellezza, attorniata da uno stormo di ammiratori ai quali si diverte ad ammiccare, alimentando un mondo di sentimenti leggeri e fatui: i sentimenti di Dulcinée per i suoi spasimanti e i sentimenti di questi per lei non valgono una promessa. L’opposizione con Don Quichotte è nettissima: egli ama di un amore profondo, convinto, ideale, che sappiamo fin dall’inizio non potrà essere corrisposto da una donna che, come uno dei suoi ammiratori ammette «va amata soltanto come si coglie un fiore di mattino in primavera, altrimenti è follia!». In queste parole c’è il presagio fosco dell’impossibilità di un finale positivo, poichè Dulcinée non è un personaggio in evoluzione, e non è capace di catarsi o redenzione. È questa impermeabilità, questa impossibilità al cambiamento che Clémentine Margaine ha evidenziato molto bene nella sua interpretazione: la sua Dulcinée – con il suo cantare corretto, il suo timbro bruno e voluttuoso – è sempre impassibile tranne quando affetta civetteria. Il suo personaggio acquista spessore, come le persone più superficiali, solo quando il personaggio vuole, di proposito, recitare.

Essa non ricambia, se non per gioco, l’amore di un ignaro Don Quichotte, al quale basta però l’idea di lei per avere un motivo per continuare ad agire valorosamente: un cavaliere dove trova il coraggio e la resistenza necessarie per affrontare prove difficili, se non nella volontà di onorare il nome della donna che ha deciso d’amare? E se il libretto è commedia, è una commedia adombrata di tristezza, poiché tutto ciò che fa sorridere racchiude allo stesso tempo la più crudele verità, che vena di cupo come un’ombra ogni vicenda: l’ironia di fondo diventa derisione e scherno, e tanto più aumentano le risa sguaiate dei popolani in scena, tanto più lo spettatore, in un delicato gioco metateatrale, è presagito dell’orrore della fine.

Dal punto di vista musicale l’opera è intrisa di gioviali passaggi di couleur locale e opposti momenti di sublimazione e contemplazione, messi ben in evidenza dalla bacchetta di Sir Andrew Davis. Scene e costumi (Ralph Funicello e Missy West) sono realistici ed eleganti, e sostengono un’impostazione registica (Matthew Ozawa) tradizionale gradevole che lascia ampio spazio agli interpreti.

Il servitore di Don Quichotte, Sancho Panza, era Nicola Alaimo, tanto buffo nel suo assecondare di malavoglia il padrone, quanto sublime nell’incoraggiarlo nel momento del reale bisogno.

Furlanetto non a caso si è guadagnato una posizione di rilievo internazionale come interprete del ruolo eponimo. Nella sua voce traspare tutta la dolcezza della sua ingenuità, tutto l’ardore del suo appassionato entusiasmo. Il suo trucco riprende l’originale del creatore del ruolo, Feodor Chaliapin, con baffi lunghi e appuntiti e tre grandi ciuffi di capelli; la sua figura slanciata è naturale incarnazione dell’hidalgo dalla Lunga Figura descritto da Cervantes: incurva la schiena, allarga le ginocchia, gli basta un leggero scuotere delle dita per caratterizzare un’intera idea, un concetto, un’espressione. Sa tremare, invecchiando Don Quichotte di tutta la vita in un momento di disillusione, come se non potesse più reggersi in piedi, fragilissimo: quando giace a terra stremato, non è per malattia, ma per la fine della speranza, della fiducia nel bene, di un mondo migliore per sé e per gli altri. Nel momento in cui le sue convinzioni sull’amore crollano, anche la sua anima lo fa, e spira.

foto Todd Rosenberg e Andrew Cioffi