La danza, la seduzione, il rigore

di Roberta Pedrotti

Un curioso accostamento fra Strauss, Haydn e Rachmaninov per il ritorno di Juraj Valčuha sul podio dell'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna.

BOLOGNA, 9 marzo 2014 - Juraj Valčuha è un ottimo direttore. Il gesto è pulito, tecnicamente sicuro, non fece forse scalpore quando, sette anni or sono, salì sul podio per la prima volta a Bologna per La bohème, ma da quella promessa son maturati, e paiono in continua evoluzione, solidi frutti, affermando un artista solido, serio e talentuoso che sarà un piacere ritrovare a Firenze a breve per L'amour des trois oranges di Prokof'ev e a Bologna, fra un anno, per Jenufa di Janáček. Il teatro gli si addice, indubbiamente, specie quello – italiano e internazionale – del XX secolo.

Il programma che l'attuale direttore dell'Orchestra Nazionale della Rai propone per il suo ritorno sinfonico all'ombra delle Due Torri è quantomeno curioso e sembra quasi stringere la sinfonia n. 85 La Regina di Haydn fra due rigogliose partiture tardoromantiche come il Don Juan di Strauss (1888) e le Danze sinfoniche di Rachmaninov (1940, ma di linguaggio non certo avanguardista). Una scelta curiosa, perché se del Tedesco si celebrano i centocinquant'anni dalla nascita e la musica russa costituisce il fil rouge della stagione sinfonica 2014, non si trova una chiara connessione che metta in relazione due partiture per nulla assimilabili alla forma classica della sinfonia con un'opera che ne è invece fra i modelli esemplari. Certo, nel vortice d'estasi e tormento del libertino straussiano si riconoscono dettagli danzanti e galanti, e alla danza sono consacrate le pagine di Rachmaninov, ma pare un pretesto troppo labile per farle dialogare con la grazia cortigiana della Regina. Potremmo lanciarci in voli pindarici di possibili connessioni, o giustapposizioni di opposti, ma l'impressione resta quella di un programma semplicemente eterogeneo volto a esaltare la versatilità di bacchetta e organico.

La perizia di Valčuha è evidente, anche quando, come in Strauss, la temperatura emotiva del concerto deve ancora prender quota. L'orchestra è pulita e precisa, alle prese con una notevole sfida da cui esce a testa alta anche senza esibire una soggiogante dovizia di colori e una tensione spasmodica di Eros e Thanatos, che lasci quasi esausti nel finale. Ma, è chiaro, il maestro slovacco non è tipo da slanci appariscenti o estenuati abbandoni. È un musicista pragmatico ed elegante, minuzioso e rigoroso, l'esecuzione ben equilibrata, priva di punti deboli, così come nella sinfonia di Haydn, resa con grande garbo, senza cadere nella leziosaggine, ma anzi sottolineando con finezza l'unitarietà della partitura attraverso i quattro movimenti. Un Settecento lucido, leggiadro nel suo formalismo, ma mai stucchevole, serio, ma non serioso.

La seconda parte ci riporta avanti nel tempo, alla piena maturità di Rachmaninov, che compiva nel suo ultimo lavoro orchestrale un progetto intrapreso ventidue anni prima, nel 1918. Come per tutta la musica sinfonica del Russo, più che profondità d'invenzione e di pensiero nelle Danze sinfoniche pare perseguire l'effetto accattivante e il favore del pubblico. La scelta felice dei temi, l'orchestrazione lussureggiante, l'abilità generale della scrittura lo rendono però uno dei brani di maggior potenziale (e di minori pretese) nel catalogo orchestrale di Rachmaninov, e Valčuha gli rende giustizia, con un impulso ritmico sempre esatto e ficcante, con una cura impeccabile degli impasti e dei rapporti timbrici. L'intelligente istinto teatrale del maestro conduce la serata in crescendo, facendo saggio affidamento sull'incipit a effetto del poema sinfonico di Strauss, che con il suo ripiegamente finale sembra aprire naturalmente la strada a un nuovo discorso, in cui si dispiega l'elegante cesello haydniano e concludere con la sfolgorante impulso danzante di Rachmaninov. Così la qualità e la lucidità della bacchetta iscrive una sorta di parabola ideale anche fra pagine affatto eterogenee, iscrivendole in un percorso di progressiva concentrazione che sfocia in una sorta di ambigua danza liberatoria, con un tratto unitario e nel contempo rispettoso di stili e peculiarità di ogni brano.

La personalità di Valčuha s'impone senza aggressività, senza esibizionismo, misuratissima e decisa, meritando un pieno successo di pubblico e grande soddisfazione nel saperlo sempre più spesso sul podio, oltre che dell'orchestra della Rai, di teatri e istituzioni concertistiche italiane.