Veronica Simeoni

Carmen, o del femminicidio

 di Francesco Lora

Ripresa alla Fenice dell’ormai classica Carmen con regìa di Bieito, lettura cui sembra accodarsi il nuovo direttore Chung. Come protagonista eccelle la Simeoni, ben affiancata da Aronica, Bakanova e Priante.

VENEZIA, 29 marzo 2017 – Ancora uno spettacolo con regìa di Calixto Bieito al Teatro La Fenice; ma se il nuovo allestimento del Tannhäuser di Wagner [leggi la recensione], varato in gennaio-febbraio, s’era distinto per vacuità drammaturgica, a colpo sicuro è andata la ripresa della Carmen di Bizet: uno spettacolo coprodotto con Barcellona, Palermo e Torino, vincitore del premio Abbiati ed esempio di Regietheater ideato per provocare e scandalizzare ma punito dalla sorte con l’essere annoverato tra i classici. Dieci recite da tutto esaurito, dunque, dallo scorso 24 marzo al prossimo 4 aprile. Trasposizione temporale al declino della dittatura franchista; rappresentazione di un contesto intriso di militarismo, machismo, nonnismo, con disinibiti riferimenti sessuali – prima emancipazione o ultima reazione al regime – e con un punto d’arrivo che mai più che qui si configura crudamente come atto di femminicidio. Analisi teatrale senza fuga dal testo, strenuo lavoro con gli attori, spigliato movimento delle masse, ricorso minimo a risorse materiali: i costumi di Mercè Palomba sono le mere divise del mestiere di soldato, o i vestiti quotidiani di una generazione di popolo, o i tagli audaci e le stoffe vistose che proprio la campagnola Micaëla indossa per sentirsi all’altezza della città; e le scene di Alfons Flores rinunciano a quasi ogni elemento, facendo piazza pulita d’ogni oleografia e limitandosi a organizzare atmosfere – le giuste atmosfere – mediante l’imprevisto, lo squallido, il superfluo.

La concertazione è nuova. Myung-Whun Chung sa come ottenere ogni cosa che voglia dall’orchestra e dal coro veneziani, e sembra accodarsi al regista nell’asciutta durezza di lettura. Gli piacciono gli schianti di piatti così generosi da rasentare lo spavento, il discorso che procede filato senza concedere spazio per l’applauso a scena aperta, il contenimento degli esotismi metrici e timbrici in favore di un più attento sguardo alle psicologie. Ciò offre a Veronica Simeoni il destro per impersonare la sua miglior Carmen, schiaffo allo spettacolo bolognese [leggi la recensione] che giusto un anno fa le aveva tarpato le ali. La tessitura anfibia della parte corrisponde tuttora alla natura stessa di questo mezzosoprano acuto, che sorretto da ottima tecnica non vi incontra difficoltà veruna e punta così dritto alla resa drammatica. Lì si trova una Carmen con tratti introversi e guardinghi, capace di mettere a nudo l’interlocutore con frasi affilate, scevra di calligrafia ma seducente per innata fermezza ed eleganza di modi. Una donna speciale, che ben s’assortisce con l’impulsivo Don José di Roberto Aronica, anch’egli assai più motivato rispetto alla prova bolognese. Non la regìa ma la sferzante direzione di Chung sembra invece intimidire il pur rifinito Vito Priante come Escamillo: le recite torinesi dell’estate scorsa [leggi la recensione] avevano meglio valorizzato la sua attitudine lirica. La Micaëla di Ekaterina Bakanova è infine radiosa e virginale come chiede Bizet, ma anche sciolta e sfrontata come serve a Bieito.