Più infelice di Bolena

 di Pietro Gandetto

Dopo trentacinque anni ritorna alla Scala Anna Bolena, diretta da Ion Marin. Note amare dalla regia di Marie-Louise Bischofberger e sul fronte musicale. Il loggione insorge a fine spettacolo con fischi e contestazioni per la regista e una parte del cast.

Milano – 31 marzo 2017. C’era grande attesa per questa Anna Bolena alla Scala. Un po’ perché mancava da Milano da trentacinque anni. Un po’ perché, quando si parla del ciclo Tudor (l’insieme delle opere donizettiane Anna Bolena, Maria Stuarda e Roberto Devereux che trattano delle tre regine inglesi), si accendono gli animi dei melomani. E un po’ perché ogni Bolena evoca automaticamente la storica ripresa del ’57 con Callas, Simionato, Gavazzeni e Visconti. Grazie a quel trionfo, infatti, l’opera dedicata alla sfortunata moglie di Enrico VIII è riapparsa in repertorio dopo circa 90 anni di oblìo, e tutti ci siamo un po’ convinti (anche inconsciamente) che Anna Bolena sia garanzia di successo. In realtà le cose non stanno esattamente così, perché la storia dell’opera insegna che Anna Bolena è un grande rischio, e si porta dietro trionfali successi (come la prima del 1830 al Carcano o la citata ripresa del 1957 alla Scala) o clamorosi fiaschi (come la prima del 1982 con Madame Caballé). E la serata di ieri tende a rientrare nella seconda categoria. Resta un mistero perché la Scala proponga un’Anna Bolena concepita per il teatro di Bordeaux senza una primadonna in grado di sostenerla e senza una regia capace di svilupparne la peculiare drammaturgia, meno “facile” rispetto a quella delle opere mature del Bergamasco. Ciò, a maggior ragione, quando si segue un’edizione critica come quella curata da Paolo Fabbri, inaugurata nella ripresa orobica del 2015 (leggi la recensione), per far scomparire scompaiono (o quasi) i tagli, ritornare alle originali tonalità e valorizzare i recitativi come si conviene.

La regia di Marie-Louise Bischofberger è in realtà una non-regia. I cantanti si muovono qua e là senza un’idea ben definita e sono lasciati a sé stessi. Anna canta "Al dolce guidami" seduta su un bracciuolo del trono, dopo aver scrutato accuratamente i suoi piedi scalzi. Nel finale non sviene come da libretto, ma cade dal trono (altezza un metro) e sembra inciampare nel chilometrico mantello nero che la avvolge. Nel secondo atto, la spoglia scena fissa di Eric Wonder viene ricoperta di pipistrelli e il fantasma di una donna si aggira tra le dame con un falco in testa e uno sulla mano (forse richiamando maldestramente il falcone, emblema della regina inglese). Le pirouettes di Enrico e Giovanna sono agghiaccianti ed Elisabetta bambina che corre qua e là sul palco nulla aggiunge se non confusione. Purtroppo non aiuta la direzione di Ion Marin, che è parsa frettolosa, povera di colori e poco intenta a sviluppare ciò che Donizetti affida all’orchestra per esprimere le varie sfaccettature dell’animo di Anna e degli altri personaggi.

Dicevamo della primadonna, Hibla Gerzmava, al suo debutto al Piermarini. Il registro centrale e quello grave sono di buon volume e qualità, ma quello acuto ha un vibrato strettissimo che invece di “sfogare” comodo sul fiato, rimane schiacciato e, quindi, aspro. La psicologia del personaggio resta monca. Non mancano intensità e orgoglio, ma l’eleganza regale e il turbamento della regina non sono arrivati.  Piace al pubblico, che la sente autentica e la salva dai fischi. Fin dalle prime note di Carlo Colombara ci rendiamo conto che la serata non è facile. Nonostante la purezza nella dizione sia immutata, il registro acuto è quasi afono e quello medio-grave – solitamente ricco di sfumature e armonici - è traballante. La causa è evidentemente un’indisposizione, nonostante la quale il basso ha preferito onorare gli impegni presi con il teatro. Sono scelte. Quel che si crede è che i fischi del loggione siano eccessivi, trattandosi di una serata no per un artista che ha sempre dimostrato negli anni il proprio talento e la propria professionalità. Il Percy di Piero Pretti è scenicamente disinvolto e omogeneo nell’emissione, anche se in acuto spesso nasaleggiante. Mattia Denti plasma con cura il personaggio del fratello di Anna, Rochford. Martina Belli - pur non agevolata dalla regia che colloca il paggio nelle pose più astruse - è un bellissimo Smeton.  Chi sa quel che fa e lo fa al meglio che può è Sonia Ganassi, che da anni si destreggia con successo in questo repertorio. La forte personalità artistica e la precisione esecutiva le consentono di tratteggiare un’ottima Giovanna Seymour. Il pubblico le tributa consensi e minime contestazioni.

A fine serata, il loggione concentra su Colombara e sulla regista i fischi e le contestazioni, in realtà da destinarsi in generale a uno spettacolo che non ha fatto centro.  In scena fino al 23 aprile con le ultime recite affidate a Federica Lombardi, allieva dell’Accademia della Scala, nel rôle en titre.

foto Brescia Amisano