Tristan und Isolde

Amor vacui

 di Antonino Trotta

Wagner inaugura la nuova stagione operistica del Teatro Regio di Torino: il primo Tristan und Isolde di Noseda lascia il segno.

Leggi la recensione a cura di Alberto Ponti del cast alternativo in scena il 17/10/2017

Torino, 15 Ottobre 2017 – «E pensare che, proprio questo accordo, è la chiave magica con cui s’apre la porta della musica contemporanea! […] Basta, basta con questo tormento cromatico che mi dà l’agitazione e mi disturba: è musica terribile, pericolosa, come se entrassi fra le spire d’un grande serpente: occorre non farcisi prendere, altrimenti se ne rimane le vittime! […] Noi siamo veramente dei mandolinisti, a paragone di questo ossessivo colosso!». Così Puccini, pochi mesi prima di morire, si riferiva al famigerato “accordo del Tristano”, l’embrionale e avveniristica architettura armonica che fa da sostrato all’intero Tristan und Isolde di Richard Wagner, opera inaugurale della stagione 2017/2018 del Teatro Regio di Torino.

Interessante la regia di Claus Guth e ripresa da Arturo Gama, che enfatizza adeguatamente la contrastante polarità tra l’azione visibile (che si traduce in una serie di dettami cavallereschi) e quella interiore dei personaggi impelagati in deliri d’amore a cui si mescola un forte senso di consapevole accettazione del destino. L’allestimento borghese non scalfisce il valore della drammaturgia, anzi le ambientazioni chiuse (scenografie e costumi di Christian Schmidt) amplificano l’asfissiante sensazione destata dalla paradigmatica interpretazione del ciò che dovrebbe essere inevitabilmente divergente dal ciò che è, come la ricerca della morte come unico strumento di perpetrazione dell’amore terreno. I giochi di luce di Jurgen Hoffmann fanno da corollario a questo turbinio psicologico che dà sostanza all’intera rappresentazione. La piattaforma girevole che movimenta le diverse camere della villa ottocentesca aggiunge un dinamismo non fine a se stesso, ma appuntito strumento per sottolineare in maniera impercettibile il lento scorrere del tempo, quasi fosse un enorme orologio che beffardo scandisce il ritmo del mondo fenomenico dietro il quale ci celano realtà ben più insidiose e profonde. Non si avverte nostalgia di elementi marinareschi al primo atto o di altri riferimenti “da libretto” in quest’opera che preserverebbe immutato fascino e bellezza anche con un palcoscenico vuoto.

Grande merito va tributato all’estatica direzione di Gianandrea Noseda nella lettura dell’enigmatico capolavoro wagneriano, estremamente minuziosa, che assume un valore complementare alla narrazione drammaturgica. Al di là del variegato ventaglio di colori e dinamiche dispiegato dagli strumenti, la scelta di accenti e sfumature nella resa orchestrale conferisce un grande carattere evocativo e figurativo, quasi si trattasse di un poema sinfonico. Noseda imprime grande compattezza e continuità alla monumentale orchestrazione, che nei tre monolitici blocchi vorticosamente passa da momenti di estremo lirismo ad altri di tormentato impeto attraverso raffinate climax sonore e ritmiche. Gli esasperati cromatismi di cui è pregna la partitura sono evidenziati con drammatica poeticità e il lento dissolversi delle foschie tonali distillato con programmatica consapevolezza, dal preludio fino alla soluzione delle cadenze nel finale in cui si fa luce sul dilemma armonico dell’opera. Un’esecuzione tornita che nella sua completezza valorizza estremamente la partitura ma non sempre mette a proprio agio i cantanti, specialmente laddove la frenetica tensione musicale si traduce in un equilibrio sonoro tra buca e palcoscenico sottile e periclitante.

Soddisfacente nella sua interezza il primo cast coinvolto in questa produzione. Ricarda Merbeth tratteggia una Isolde volitiva e appassionata, elegante nella concitazione amorosa che si dipana nel corso dell’opera. Particolarmente apprezzabile il nobile canto legato ricco di eteree smorzature che trova la sua massima espressione nel celeberrimo “Liebestod”. La cantante tedesca, a suo agio nei panni dell’eroina wagneriana sia vocalmente sia scenicamente nella lettura di Guth, gestisce sempre con morbidezza e rotondità l’intricata linea melodica, riuscendo a districarsi anche quando l’intreccio con il manto orchestrale diviene più fitto. La voce è timbrata e omogenea in tutta la tessitura, anche se alla facilità del registro acuto si contrappone un registro grave meno incisivo in termini di sonorità.

Assai valida anche la prova di Michelle Breedt impegnata nella parte di Brangäne. Il mezzosoprano sudafricano sfoggia una voce molto brunita che per colore e volume si mescola perfettamente con quella della protagonista, specialmente nel primo atto dove la continuità del canto rafforza significativamente l’idea del regista di fare dei due personaggi femminili i due volti di una stessa medaglia. Il canto della Breedt mostra fierezza negli accenti e fermezza nella linea, il tutto stemperato da una centellinata dose di maternale dolcezza. Unica nota negativa nella sua performance risiede negli estremi acuti della tessitura, dove a volte la voce diventa più secca e dura.

Meno riuscito il Tristan di Peter Seiffert. Al di là della resa scenica dove l’interprete non incontra le aspettative sedimentate nell’immaginario collettivo sulla figura dell’antieroe wagneriano, la voce appare affaticata già dal primo atto e l’emissione non sempre perfettamente a fuoco specialmente nella pazzia al terzo. Il volume è complessivamente buono ma il canto risulta privo di nuance dinamiche, specialmente nel registro acuto dove la voce è sforzata. Il tenore tedesco è spesso messo in difficoltà dagli improvvisi ritmi serrati staccati da Noseda, accennati solo da un repentino accelerando, che mettono a dura prova la gestione nel fiato. Nonostante queste mende vocali, che sono attenuabili data l’età del cantante e la difficoltà della parte, è lodevole il temperamento con cui è stato affrontato il personaggio e la ricerca di eroici accenti che hanno reso Tristan apprezzabile anche nella sua problematicità vocale.

Molto buono il Kurwenal di Martin Gantner che, dopo qualche lieve ingolatura nel primo atto, dove il momento scenico è maggiormente esagitato, recupera molto bene nel corso dell’opera. La voce del baritono tedesco si pone sullo stesso livello di quella del protagonista per caratura drammatica e spessore vocale, plasmando un personaggio nobile e leale. Steven Humes dipinge invece un re Marke piuttosto algido e imponente nella presenza scenica. Il timbro poco scuro non induce autorevolezza ma il gusto nella scelta delle sfumature dinamiche e drammatiche rende con limpidezza il sentimento di rassegnata e incredula accettazione del doppio tradimento, testimoniando una buona interiorizzazione del personaggio e un’attenta analisi psicologica. Preciso il breve intervento del coro maschile del Teatro Regio. Completano il cast Jan Vacík (Melot, voce leggermente fissa nella scena del duello), Joshua Sanders (un pastore), Franco Rizzo (un timoniere) e Patrick Reiter (un giovane marinaio).

Non resta che augurarsi che questo sublime ouverture possa essere il preludio di una stagione operistica ricca di emozionanti produzioni.