Il labirinto dei vicoli ciechi

 di Roberta Pedrotti

Buone intenzioni e potenzialità si disperdono sia nella lettura registica sia in quella musicale per questa Aida bolognese, che alla prima conta su un cast mediamente corretto ma lontano da quella nobiltà che dovrebbe essere il cardine dell'interpretazione verdiana.

Leggi la recensione del cast alternativo con Garcia, Escobar, Melis, Meo, Di Matteo

BOLOGNA, 12 novembre 2017 - Aida è l'unica opera per la quale Verdi non si sia rifatto a una fonte letteraria o librettistica precedente. Tutto nasce ex novo, sulla base di un canovaccio dalla firma importante (l'archeologo Auguste Mariette) che tuttavia riprendeva il più classico dei triangoli amorosi complicati da contrasti di potere e dovere; lo incornicia un ambiente storico ed esotico e abbaglia e sfavilla, ma che non è il cuore del lavoro di Verdi, qui più che mai librettista di sé stesso che al Ghislanzoni delega per lo più l'aggiustamento metrico e poetico delle proprie bozze, concentrato a sviluppare psicologie e caratteri in piena libertà. Un eroe bello e spavaldo, ambizioso sognatore che pensa di poter avere tutto, amata e gloria anche se la seconda si deve guadagnare con il sangue dei congiunti della prima, sempre pronto a generose, eclatanti decisioni finché tutte non gli si ritorceranno contro costringendolo, presso alla morte, a prenderne finalmente coscienza. Un'eroina prigioniera, vinta e oppressa, costretta dal padre e dalla patria a ingannare anche l'uomo che ama, ma che infine morirà con lui. Un'antagonista che tutto potrebbe avere dalla vita, ma scopre di non poter possedere e di perdere l'unica cosa che conta e che non può controllare. Sopra di essi, un padre forte, audace, spregiudicato manipolatore, un sovrano (e padre) quasi trasparente, sottoposto a un onnipotente potere religioso da cui dipendono vita e morte, gloria e precipizio. 

Sfrondato ogni orpello, può esser cosa buona e giusta puntare all'essenzialità e concentrar tutta l'attenzione sui caratteri e le loro dinamiche, sconquassate dalle ragioni implacabili della politica, grandiose e terribili, non un semplice e rutilante appagamento visivo fine a sè stesso. In tal senso l'intuizione visiva di questo spettacolo di Francesco Micheli (scene di Edoardo Sanchi, costumi di Silvia Aymonino, disegni di Francesca Ballarini, luci di Fabio Barettin riprese da Daniele Naldi), nato per l'estensione dello Sferisterio di Macerata e ripensato per la raccolta sala del Bibiena, può esser felicissima: un palco nudo, essenziale, con un piano inclinato, un fondale mobile, alcune botole, tutto come schermo neutro per la proiezione di colori, simboli, luci. Ogni minimo elemento può concorrere a definire la vicenda nella giusta atmosfera morale, e talora l'effetto colpisce nel segno, come quando Aida intona "Fuggiam gli ardori inospiti" immersa nei toni ocra, arancio, fino a porpora e magenta, o quando la stessa vede avvicinarsi Radames sulle note di "Pur ti riveggo, mia dolce Aida" mano nella mano con Amneris come in un incubo di onde in tinte acide, o ancora nel finale, con due raggi a formare quasi due ali che dischiudono il ciel. Tuttavia il complesso dello spettacolo resta confinato nella potenzialità del condizionale, nei lampi di alcuni dettagli e alcune immagini, perché le proiezioni non si fermano all'efficace essenzialità di alcuni simboli tratti dall'arte egiziana (poco importa se la dea celeste Nut prende il posto del demiurgo Ftah/Ptah: l'iconografia predinastica e dell'Antico Regno soprattutto si sposa benissimo all'arte moderna e contemporanea, all'elaborazione grafica). Viceversa, il gioco si fa ridondante scivolando nel didascalico superfluo che fa increspare le labbra - e non per il sorriso sagace e sarcastico suscitato da uno straniamento brechtiano che faticheremmo a ravvisare - allorché l'ingresso di ogni personaggio è accompagnato da suo nome a lettere cubitali o nel finale secondo "TRIONFO" è scritto in cielo a scanso di equivoci. Non parliamo, poi, della freccia colossale puntata su Radames che si consegna a Ramfis, o del duetto delle due rivali per lo più confinate ciascuna in una porzione di palcoscenico, l'una bianca sotto la definizione di "POSSENTE", l'altra, sempre più piccola, blu e "SCHIAVA". Peccato davvero che il gioco luminoso e cromatico perda la misura e sovrasti così uno spettacolo con grandi potenziali che però troppo spesso imboccano vicoli ciechi. Uno di questi è la stessa idea di base: la scena come un computer portatile governato da Ramfis, vero arbitro dei destini e padrone dell'Egitto, plausibile demiurgo in una versione tecnologica che però non si sviluppa in modo convincente, anche perché si presume che nel più ampio spazio aperto originale la forma della struttura scenica abbia avuto ben altra evidenza. Qui rimaniamo in dubbio: Ramfis è un autore? È forse Verdi stesso che plasma il suo melodramma? È invece un fato ostile, bizzoso, imperscrutabile? O il potere-ombra della casta religiosa che tutto pervade e controlla? Comunque sia è un dubbio che rimane ai margini, non si scioglie ma non incide in maniera sostanziale.

Quel che spiace, più che altro, è che su un palco come quello del Comunale, la recitazione sembri calibrata su distanze areniane, in bilico fra dettagli ben trovati (Amneris che all'ingresso dei sacerdoti si raggomitola come una bambina spaventata), ambizioni astratte che talora paiono voler ammiccare a Bob Wilson e stereotipi come le braccia levate al cielo di Aida, cui concederemmo ormai di farlo solo in una notte veronese sotto la firma archeologica di De Bosio.

D'altra parte, anche la concertazione di Frédéric Chaslin sembra procedere per vie tortuose senza aver ben chiaro un obiettivo. O, meglio, è chiaro che la sua visione dell'opera sia trasparente, analitica, antiretorica, ma, di fatto, pare farsi valere più nei numeri di danza e nelle grandi scene d'assieme, in cui, per esempio, gestisce bene il crescendo. Nell'attacco del preludio o nel definire il fremere notturno delle rive del Nilo, viceversa, non troviamo l'impalpabile  e cangiante pianissimo che ci aspetteremmo in una sala raccolta come questa e con tali evidenti intenti interpretativi, risultando piuttosto piatto nella dinamica. Parimenti pagine cardine della drammaturgia dell'opera, come il duetto delle donne o quello fra padre e figlia, scorrono senza la tensione interna e la mobilità psicologica su cui si dovrebbero reggere. Pare, quasi, che Chaslin proceda per la sua strada senza calibrare esattamente le sue intenzioni sulle peculiarità del cast: bene, di principio, chiedere a Radames di chiudere "Celeste Aida" morendo come scritto in partitura, ma se il tenore è Antonello Palombi (che, previsto nella compagnia alternativa, eredita la prima dall'indisposto Carlo Ventre), voce di grana grossa portata più alla fibra che al cesello, e nel suo "trono vicino al sol" sentiamo improvvisamente un sottile falsetto soppiantarne il timbro roccioso sarebbe forse stato meglio ricorrere alla chiusa tradizionale o a quella alternativa con la discesa all'ottava inferiore. Si apprezza anche che le corone siano moderate e che si richieda ad Amonasro il rispetto dei numerosi segni dinamici di cui è costellata la sua parte, ma se Dario Solari ci pare sensibilmente cresciuto in disciplina musicale rispetto a prove precedenti, l'emissione il fraseggio continuano a mancare di quella nobiltà che è tratto distintivo di ogni personaggio verdiano e che, fraintendendolo, si tente talora a negare a re nubiano. La mancanza di nobiltà nel canto e una certa genericità espressiva accomunano, peraltro, un po' tutto il cast, anche al di là di limiti e qualità individuali. Monica Zanettin è, per esempio, un'Aida più che corretta, che conosce bene il ruolo, sa dosare le sue forze e i suoi mezzi, risolve bene il finale e "Numi pietà", ma non si innalza al di sopra di un dignitoso anonimato: assolve al suo compito ma non lascia mai il segno. Corretta è anche Nino Surguladze, che tuttavia non possiede l'ampiezza non solo di voce, ma anche di eloquio e fraseggio per render giustizia alla scrittura verdiana, sicché quando l'accento deve farsi più marcato il rischio di varcare i confini del buon gusto, della nobiltà verdiana è dietro l'angolo. La caratterizzazione di un'Amneris adolescente e immatura travolta dagli eventi può avere una sua efficacia, ma non si sviluppa debitamente oltre la superficie. 

Spiace constatare una certa usura vocale in Enrico Iori, mentre Luca Dall'Amico canta con efficacia le frasi del Re. Cristiano Olivieri è il messaggero e Beth Hagermann la sacerdotessa. Se anche la lettura musicale non spicca il volo, l'orchestra e il coro preparato da Andrea Faidutti offrono complessivamente una buona prova, anche considerato il ricorso a passaggi in platea che certo non giovano agli equilibri (non siamo più nello Stiffelio parmigiano dove ogni dettaglio era calibrato per creare un mondo). La compagnia di Ballo Artemis Danza e le allieve della scuola Arabesque eseguono molto bene le coreografie che Monica Casadei crea in linea con lo spettacolo: un gioco quasi infantile con Amneris nel primo quadro del secondo atto, evoluzioni fantascientifiche con costumi fra Guerre stellari e Arancia meccanica nel Trionfo.

Applausi per tutti alla fine (e in corso d'opera un paio di eccessi di entusiasmo nel bel mezzo delle prime danze e mentre Aida ancora cantava i suoi "Cieli azzurri") per una coda di stagione placidamente dedicata al grande repertorio, fra un mesetto seguirà Tosca, dopo l'ottobre consacrato a BolognaModern.

Sfogliando il programma di sala, dopo la recita, due considerazioni sorgono frattanto: il plauso incondizionato per la proposta del saggio di Giorgio Pestelli che spazza via fin dalle prime righe la fola della commissione per l'inaugurazione del canale di Suez; la sperimentazione dei sottotitoli tramite app per cellulare da seguire individualmente (inaugurata con lo Stiffelio parmigiano, nel quale i sistemi tradizionali erano evidentemente impraticabili), qualsiasi futuro possa avere, toglie la tentazione a sbirciare il monitor sulla scena e costringe a constatare impietosamente la mala dizione soprattutto delle voci femminili.

foto Rocco Casaluci