Orizzonti d'ombra e bagliori

 di Roberta Pedrotti

Con la compagnia alternativa si confermano luci e ombre dell'Aida al Comunale. Ai difetti tecnici che limitano le prove di Ana Lucrecia Garcia (Aida) e Sergio Escobar (Radames) corrispondono, comunque, voci gravi (Cristina Melis, Stefano Meo e Antonio Di Matteo) dalle qualità promettenti.

Leggi la recensione della prima con Zanettin, Palombi, Surguladze, Solari, Iori

BOLOGNA, 16 novembre 2017 - L'abbondante presenza di giovani e giovanissimi per questa recita fuori abbonamento di Aida è il dato che più colpisce, portando una ventata d'aria fresca con ragazzi entusiasti, variamente eleganti, che si scattano selfie di gruppo a sipario chiuso, ma non disturbano affatto durante lo spettacolo (son piuttosto quelli che potrebbero essere i loro genitori e nonni a borbottare un po' troppo). Molti vengono al Comunale per la prima volta - lo si capisce da come chiedono informazioni su bagni, bar, guardaroba - e paiono rispettosi ma non troppo intimiditi e, soprattutto, seguono l'opera con sincero interesse.

Già questo, e una presenza straniera che fa riflettere sull'identità fra teatro e città nell'indotto turistico, mette di buon umore, anche se la recita in sé non è di quelle che porteremo nel cuore in sempiterna saecula.

Rivedere l'allestimento di Francesco Micheli ne conferma limiti e potenzialità, entrambi amplificati, si direbbe, dalla collocazione in uno spazio assai più circoscritto dell'originario Sferisterio maceratese. Bella l'essenzialità quasi astratta, belle l'idea di affidare la drammaturgia a uno spettro cromatico cangiante proiettato sulla nudità della scena/schermo, belli anche alcuni simboli ispirati a geroglifici e iconografia egizia a fare il paio visivo con l'intreccio tematico della partitura. Se solo si evitassero eccessi didascalici che, fra scritte e immagini, rischiano di trasformare la rappresentazione quasi in un mega fumetto, se si sfrondasse il tutto da schermi portatili e ridondanze descrittive, se si privasse Ramfis della sua bacchettina magica (o almeno se ne rivedesse l'uso) puntando maggiormente sulla recitazione, non priva di spunti ma anche di cali di tensione correggibili come migliorabile è l'apporto coreografico, potremmo parlare di un'Aida davvero bella e interessante e non di uno spettacolo borderline e, in definitiva, irrisolto.

Il rinnovamento quasi totale della compagnia di canto mischia le carte in tavola senza alterar troppo i risultati. Ana Lucrecia Garcia possiede un timbro più personale e polposo rispetto a Monica Zanettin, ascoltata alla prima, ma non lo amministra con eguale equilibrio e controllo né appare più espressiva o incisiva, solo più disordinatamente esuberante e musicalmente imprecisa. Peccato, perché i mezzi, e li ricordiamo già dal precocissimo esordio nell'Attila scaligero del 2011, sarebbero ragguardevoli e meriterebbero un affinamento che, data l'età, potrebbe ancora curare. Con il permanere dell'indisposizione di Carlo Ventre e il conseguente passaggio di Antonello Palombi, arriva in alternanza Sergio Escobar, voce più chiara e giovanile e intenzioni musicali più fini, anche se la tecnica non lo sostiene: con il passaggio il sostegno si fa meno saldo, la posizione del suono oscilla verso il naso e così, quando la tessitura si alza l'emissione si fa più precaria, come conferma l'infelice chiusura di "Celeste Aida". Qui non tenta il prescritto "morendo" e si mantiene sul tradizionale forte con prudenza purtroppo insufficiente a garantire un buon risultato. Tuttavia, i pur apprezzabili tentativi di sfumare nel piano sfoggiati nel prosieguo confermano come i problemi tecnici dell'acuto siano i medesimi nelle mezzevoci.

Ha, così, buon gioco ad emergere l'Amneris di Cristina Melis, soprattutto per il senso e l'intelligibilità della parola scenica e del fraseggio. Rispetto alla principessa adolescenziale di Nino Surguladze, Melis è più fiera e autoritaria, complessivamente, anche per la migliore dizione, più incisiva. Potrà esserlo ancor più maturando il delicato equilibrio fra l'articolazione anche delle frasi più accidentate e drammatiche e la continuità del fiato e dell'emissione. Nondimeno, Antonio Di Matteo conferma le ottime premesse di una natura generosa che gli permette di essere un Ramfis efficace e imponente anche fisicamente: data la giovane età non possiamo che augurarci un continuo sviluppo anche tecnico e artistico di questi mezzi, facendo attenzione a non forzarli. Lascia presagire un futuro roseo, infine, il prezioso timbro baritonale di Stefano Meo, un Amonasro che convince soprattutto nel terzo atto, anche se con il tempo potrà sicuramente rendere più penetrante, insinuante e perentorio il suo canto, modulando al meglio colori e dettagli musicali.

Luca Dall'Amico, Barbara Hagerman e Cristiano Olivieri sono anche stasera il Re, la Sacerdotessa e il Messaggero; il coro e l'orchestra confermano una buona prova, così come Frédéric Chaslin sul podio conferma le luci e le ombre della sua doppia prospettiva di compositore e direttore. Da un lato la lettura è senz'altro accurata, personale, non scontata, dall'altro l'intelligenza non si traduce in salda pratica teatrale, con qualche rigidità nell'adattarsi alla contingenza concreta e qualche sbavatura nella gestione degli equilibri.

Applausi franchi e soddisfatti da parte di un pubblico che, nonostante sia composto in buona parte da neofiti, non reagisce mai a sproposito come invece era avvenuto alla prima.