Anna Caterina Antonacci

Il discorso contemporaneo

di Francesco Lora

Al Teatro Lirico di Cagliari, La ciociara di Marco Tutino è il logico séguito della sospesa tradizione operistica italiana. Trionfo, con una regìa di Francesca Zambello già collaudata a San Francisco e un’Anna Caterina Antonacci tale protagonista da assurgere a parte del testo.

CAGLIARI, 24 novembre 2017 – La fiaba di Andersen racconta di un imperatore vanitoso, cui due imbroglioni propinano un tessuto impalpabile e miracoloso: la sua vista è preclusa agli stupidi e agli indegni. Gli abiti con esso realizzati, immaginari, rimangono invisibili all’imperatore, ai cortigiani e ai cittadini; tutti però plaudono alla sfilata: confessare di non vedere significherebbe ammettere d’essere stupidi o indegni. L’innocenza di un bambino rompe la dissimulazione: «l’imperatore è nudo», grida; ma il sovrano procede indifferente. Dal punto di vista del bambino, il Comunale di Bologna e la Scala di Milano avrebbero forse versato da poco un tributo farisaico al teatro d’opera contemporaneo: il primo riprendendo Medeamaterial di Dusapin, il secondo creando Ti vedo, ti sento, mi perdo di Sciarrino.

I due lavori citati esemplificano, da ultimi, la vecchia deriva artistica tuttora lasciata in arrogante corso. Nulla v’è da obiettare sulla legittima esistenza di queste musiche. Non andrebbe però taciuto che il loro vero fine è l’ideazione del concetto, la sperimentazione di mezzi più teorici che pratici, la muta lettura del foglio, ossia lo studio in un laboratorio aristocratico e non inclusivo. Esse vedono infatti sospesa l’equilibrata dialettica triangolare – tanto cara a Britten, cui non era sfuggita la chiara visione del corto circuito – tra chi compone, chi esegue e chi ascolta: mentre l’autore s’imbozzola nell’autoreferenza della propria dottrina, a farsene carico sono musicisti umiliati nella loro poetica e tecnica, abbonati sfidati nella loro passione e pazienza, teatri alleggeriti nei portafogli e svuotati nelle sale.

Tutt’altra storia al Teatro Lirico di Cagliari, dove in otto recite dal 24 novembre al 3 dicembre è stato mostrato cosa debba essere – niente di meno – il teatro d’opera alla volta del millennio. La ciociara è un lavoro in due atti tratto dal romanzo di Alberto Moravia e, misuratamente, mediato dal film con Vittorio De Sica regista e Sophia Loren protagonista. Luca Rossi ha ricavato una sceneggiatura poi tradotta in libretto dal compositore designato, Marco Tutino, e da un fido uomo di teatro, Fabio Ceresa. Posta in musica e dotata di un formidabile allestimento scenico, l’opera ha trionfato all’Opera di San Francisco nel giugno 2015. Doveva essere ripresa al Teatro Regio di Torino nel corso della prossima stagione, ma con poca lungimiranza quel progetto è stato deviato verso titoli di repertorio.

La scena cagliaritana è corsa a rilevare quella prelibatezza: col debutto europeo della Ciociara ha così ribadito di tenere un ruolo internazionale e, nel contempo, ha predicato il logico séguito della sospesa tradizione operistica italiana. A Tutino già non mancavano i meriti: segnatamente nella Ciociara, però, il suo discorso interseca il soggetto più trascinante, motiva al colmo gli interpreti e coinvolge il pubblico mediante il restauro e la reinvenzione di un codice comune. Si ritrovano la naturalezza melodica nel canto di conversazione, l’intramontabile triangolazione di ruoli tra soprano, tenore e baritono, un evocativo e struggente intermezzo sinfonico, il gioco d’includere in quanto tale La strada nel bosco di Bixio-Rusconi nella partitura, la drammaturgia all’italiana che sa ancora educare e commuovere.

È soprattutto l’acquisizione del linguaggio cinematografico a determinare le novità strutturali, superando per via inedita il precedente stesso di De Sica. Con parole e musica nate senza – si direbbe – che l’una precedesse l’altra, un esempio sconvolgente è dato nella scena dell’esecuzione di Michele e in quella dello stupro di Cesira e Rosetta: culmine drammatico e chiave sacrificale di tutta l’azione, nell’opera esse s’intrecciano e sospendono a vicenda, accumulando nel pubblico tensione su tensione. In contraccambio, avviene l’inaudito: lacrime avvistate su un pezzo di storia nostra, sfogo di applausi a scena aperta, personaggi e interpreti così inestricabilmente fusi gli uni negli altri che, tra le ovazioni finali, chi tiene la parte di un cattivo si busca anche qualche muggito furente. Bentornata, opera italiana.

Capolavoro di ritratto e trasfigurazione del reale, anche e soprattutto nel soffermarsi su guerra e miseria, tra lo straziante virtuosismo di bombardamenti, è l’allestimento con regìa di Francesca Zambello (ripresa da Laurie Feldman), scene di Peter J. Davison, costumi di Jess Goldstein, luci di Mark McCullough, video di S. Katy Tucker e coreografie di Luigia Frattaroli. Non un pigro debito, bensì un omaggio a De Sica è la ripresa critica di qualche oleografia che il film celebre ha reso ineludibile. La sovrapposizione di pellicola e partitura non potrebbe ammettere di più, poiché altre sono le vie drammaturgiche e psicologiche percorse da Tutino e trattate dalla Zambello, e poiché affatto emancipato da ogni precedente – soprattutto – è l’apporto attoriale della compagnia di canto vantata a Cagliari.

La parte protagonistica di Cesira è stata concepita in modo specifico sulle qualità vocali e sceniche di Anna Caterina Antonacci: dire che ella ne sia interprete impareggiabile, autonomo contraltare al precedente della Loren, equivale a necessaria e insieme vana tautologia. Si ripeterà fino alla noia, invece, che le risorse artistiche dell’Antonacci eccedono di gran lunga quelle richieste per convenzione a una cantante d’opera: ferma resta l’erudizione della musicista, ferma resta la dolente malia timbrica, ma parola e azione sono informate alla sottigliezza linguistica, alla cinefilia vorace, a respiro e accento da teatro di prosa, il tutto trasportato intatto, come se ciò fosse un’ovvietà, sul letto di Procuste della partitura. Con placida consapevolezza di Tutino, nella Ciociara l’Antonacci è parte del testo.

Per ritmo scenico e caratterizzazione drammatica fanno con lei instancabile squadra la Rosetta di Lavinia Bini, in violenta evoluzione psicologica, il Michele di Aquiles Machado, perdente e glorioso come un eroe romantico, il Giovanni di Sebastian Catana, rustico nel canto ma efficace vilain, via avanzando fino al caratterismo inconfondibile di Gregory Bonfatti come Pasquale Sciortino e di Lara Rotili come sua madre Maria. Tra tutti si distingue, come un monumento, il Fedor von Bock di un Roberto Scandiuzzi sempre nero, perentorio, impenetrabile, pronto a offrire la grana vocale di Filippo II all’opera contemporanea. Quanto alla direzione, Giuseppe Finzi guida con polso saldo l’orchestra cagliaritana nelle accensioni sinfoniche e séguita il canto con esigente fiducia: parrà poco, ma è tutto. Trionfo.