di Roberta Pedrotti
G. Donizetti
Ugo, conte di Parigi
Dimitriu, Giannattasio, Nakajima, Tokyurek, Nikolic, Vatchkov
Orchestra e coro dell'Accademia della Scala
direttore Antonino Fogliani
Bergamo, Teatro Donizetti, ottobre 2003
2 CD Dynamic 7659/1-2, 2013
Se Ugo conte di Parigi non è un capolavoro il motivo è ben chiaro, e non è riconducibile a un calo d'ispirazione di Donizetti. La partitura, anzi, è splendida, con molti passi all'altezza delle sue opere maggiori e - meno di due anni dopo la prima dell'Anna Bolena, due mesi prima dell'Elisir d'amore - proclama decisamente la piena maturità artistica del Bergamasco, preludio ai traguardi di Borgia, Stuarda, Devereux, Lucia. Il cast stellare radunato alla Scala per la prima del 1832, con Pasta, Grisi e Donzelli, ribadisce la fiducia riposta in quello che avrebbe dovuto rivelarsi come un trionfo che riecheggiasse e amplificasse il successo della Bolena. Invece fu un fiasco. A dispetto della qualità della scrittura e dell'elaborazione dei numeri chiusi, estesi e complessi, l'opera appare come un'occasione perduta, come un soggetto potenzialmente esplosivo che resta sfuggente e non pienamente sviluppato.
Ma proprio quel soggetto causò la caduta dell'opera: per la censura milanese la vicenda di una regina uxoricida e regicida che vede il suo delitto ripetersi sul figlio per mano di una nuora resa folle dalla passione per un altro uomo era davvero troppo, e così, se il primo delitto resta alluso, il secondo non si compie, la regina madre viene ridimensionata a comprimaria (seppur decisiva), la giovane consorte del sovrano ne diviene la refrattaria fidanzata e il nodo della vicenda si sposta sull'inconsapevole rivalità fra due sorelle, una amante riamata dell'onestissimo condottiero Ugo, l'altra priva di speranza e promessa sposa al re. Inutile dire che il radicale rimaneggiamento dell'impianto inizialmente prospettato da Donizetti e dal suo librettista Felice Romani incide non poco sull'efficacia drammaturgica e sulla compiutezza psicologica di un'opera che resta un'affascinante occasione perduta, un capolavoro in potenza che non cessa di affascinare proprio per il suo carattere sfuggente e tormentato. Ne doveva essere ben cosciente Donizetti, che nell'opera trasfuse sì anche musiche da lavori precedenti come Francesca di Foix o Imelda de' Lambertazzi, ma riprese pure diverso materiale dell'Ugo in Gemma di Vergy, in Pia de' Tolomei o in Marin Faliero (senza contare la comunanza di diversi momenti con un'altra opera travagliata, come la Gabriella di Vergy, la cui gestazione si pone esattamente a cavallo di quella dell'Ugo), prova significante della fiducia riposta nel proprio lavoro, ma anche della consapevolezza della difficoltà di circolazione di un libretto dalle ali così tarpate dalla censura.
Di fronte a tanta sventura e a sì alterne vicende, la discografia si mostra inevitabilmente piuttosto esigua, con una sola incisione in studio (merito della solita Opera Rara) e un'unica edizione live, fortunatamente ristampata di recente dalla Dynamic, parimenti encomiabile nella testimonianza di spettacoli e riprese di rarità.
Si tratta di una produzione bergamasca realizzata nel 2003 in collaborazione con l'Accademia della Scala e che annovera, dunque, in ruoli concepiti per autentici mostri sacri della storia del canto, giovani di belle speranze più o meno concretizzatesi. Di Doina Dimitriu, soprano interessante ma che pare essersi bruciato nello spazio d'un mattino per i troppi impegni accumulatisi in un repertorio troppo eterogeneo, si sono infatti perse le tracce, eppure la sua prova come Bianca – la vera protagonista – non è priva di meriti, nonostante alcuni limiti e segni d'affaticamento imputabili anche dall'indisposizione che la colpì durante le recite e che viene annunciata nel libretto del CD, con il ringraziamento per averne permesso ugualmente la pubblicazione. La giovane Carmen Giannattasio, nei panni più defilati di Adelia, la sorella amata da Ugo, fa bella figura, mentre a Miljiana Nikolic spetta il ruolo sacrificato e potentissimo di Emma, la regina madre. Quarta voce femminile in campo è quella del giovane re Luigi V, inesperto e arrogante, affidato al contralto, non sempre aggraziato nell'emissione, né esente da emissioni ingolate che ne limitano l'estensione, ma nel complesso attendibile Sim Tokyurek. Nel ruolo eponimo troviamo Yasuharu Nakajima, tenore giapponese dalla discreta carriera (anche con il nome abbreviato in Yasu) ma anch'egli oggi poco presente nei cartelloni: sicuramente non stiamo parlando di un nobile primo uomo romantico dal fraseggio ampio e autorevole, ma la dizione è chiarissima, il cantante corretto, la vocalità gradevole per quanto non particolarmente incisiva. Completa il cast Dejan Vatchov, unica voce grave in capo in un'opera stranamente sbilanciata verso i registri femminili, nei panni ambigui e torvi di Folco, principe del sangue e pretendente al trono, anch'egli vittima della scure censoria che ha castrato il côté più politico e oscuro della vicenda.
Sul podio troviamo un corretto e ispirato Antonino Fogliani, che offre una prova di gran lunga superiore a quelle cui ci ha abituato negli ultimi anni.
Con la consueta proprietà e capacità di sintesi Danilo Prefumo ben ricostruisce vicenda e qualità della partitura, anche se incappa in qualche refuso curioso: si definiscono “anni a cavallo tra la fine del secondo e il principio del terzo decennio dell'Ottocento” quelli fra gli anni '20 e '30 (quindi terzo e quarto decennio) e si dice Musica Rara per intendere Opera Rara. Non se ne fa una colpa al benemerito studioso, la cui competenza è ben nota, ma si lamenta ancora una volta l'estinzione dei correttori di bozze. Così ci pare strano che nella locandina Luigi V venga definito “male alto” (quindi letteralmente contralto maschile, il che farebbe pensare a un interprete che sia uomo all'anagrafe e canti in registro femminile per tecnica, natura o chirurgia) e non semplicemente contralto (“alto” in inglese) en travesti. Il fatto che per il pubblico italiano il nome proprio Sim non renda immediatamente identificabile il sesso della cantante (donna) fa sì che la scelta del termine inglese suoni ancor più ambigua.
Al termine dell'ascolto, però, un'istanza si affaccia prepotente alla mente, più di ogni possibile considerazione sull'esecuzione dell'opera e la redazione di libretto e locandine: sarà mai possibile in sede filologica recuperare il lavoro di Donizetti e Romani prima degli interventi della censura? Sarà possibile eseguirlo e rendere a quest'opera, almeno in parte, la fisionomia originaria, o si tratta solo del sogno di un capolavoro perduto, o mai compiuto?