Arbiter Elegantiarum: Sokolov legge Chopin

di Stefano Ceccarelli

Considerato da alcuni il maggior pianista vivente, Sokolov fa oggi certamente parte dell’Olimpo dei migliori della tastiera. Ospite abituale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, in questo recital propone un programma tutto dedicato al genio assoluto di Fryderyk Chopin, riscuotendo un turbinio di applausi.

ROMA, 12 marzo 2014 – Una sala gremita di appassionati e esperti − giunti anche da lontano −, attende con devozione l’entrata del grande Grigory Sokolov: oltre cinquant’anni di onorata carriera bastano a metterne in luce, unanimemente, l’inconsueta profondità di pensiero musicale, la raffinata perizia tecnica, e una musicalità pervasa da grande profondità di spirito. Incomincia con la Sonata n. 3 in si minore op. 58 (1844), brano di certo ostico. Con quale mirabile gusto musicale, autentica intelligenza interpretativa, attraversa il passaggio dal primo tema (I movimento), ricco di accordi e scale, fino al secondo, un piccolo giardino fatato, melodicamente tenerissimo, del più autentico gusto chopiniano. Nello Scherzo (II) palesa eccellenti doti tecniche nel volare sulle difficoltà virtuosistiche, mantenendo pur sempre un suono terso, uniforme; nel Largo si lascia andare a accenti più lirici, ma mai strascicati, specialmente nel tema che è stato paragonato a una romanza per soprano, quasi una citazione di un genere (l’opera) per cui Chopin non scrisse mai nulla – o non ne ebbe il tempo… Termina con il Finale: Presto, non tanto. Agitato in cui emerge interamente la sua linea interpretativa di un virtuosismo chopiniano più che garbato, urbano. Il brano è di quelli che lascia notevole spazio all’interpretazione, e a chi sappia servirsene: un senso di controllata calma pervade tutto il pensiero di Sokolov, con buona dose di squisito onirismo narrativo e intimismo sentimentale (molto deve all’antica versione che ne diede Dinu Lipatti). Al termine, un’ovazione sincera scatta repentina dal pubblico. Già da questa prima parte emergono le caratteristiche del pianismo di Sokolov: la tecnica e l’intelligenza sono sorrette da un suono mai sporco, da una gestione delle dinamiche sonore mai strappata, da un uso giusto degli effetti tipici dell’interpretazione storica di Chopin, come il ritardando – insomma, una traduzione pianistica del principio dell’aurea medietas. La seconda parte del concerto è tutta dedicata a un’antologia di mazurche del polacco. La scelta, non casuale, del florilegio rende il tutto studiatissimo: Sokolov segue una linea cronologica che va dalla giovinezza all’imminenza della morte del compositore. L’ineluttabilità della tragicità della vita (lo zal) e un esotismo malinconico giocano la maggior partita nella seconda delle Mazurche op. 68, dove Sokolov accentua caratteri di incredibile cantabilità narrante, quasi leggendo una languida barcarola (con trilli di perturbante bellezza); più scanzonata la terza dell’op. 68, con il superbo coup de théâtre del solare, inatteso motivo popolare al centro. Passa poi al ciclo delle Mazurche op. 30. Della prima e della seconda esalta, rispettivamente, il carattere elegiacamente slavo, e liricamente malinconico e ballabile; ma è con la celebre terza che raggiunge una vetta assoluta d’interpretazione, fraseggiando, con respiro, attese e ritardi (in autentico spirito chopiniano), quegli accordi e melodie sciolte che sono tutto un mondo di pennellate; il piccolo ciclo termina con la teoria di accordi bardici della quarta, su una melodia astrale. Continua con le tre Mazurche op. 50: è subito un misto di danzante trasporto e briosa malinconia (non riesco a usare – per descrivere certo carattere della musica del polacco – che un bipolare ossimoro). La terza, con quel suo notturno arabeggiante misto a una verve slava, è la più sentita e meglio eseguita. Chiude il concerto con l’op. 68 n. 4, lasciata parzialmente compiuta nell’anno della morte (1849) e ricostruita dal violoncellista Franchomme, infine riaggiustata e pubblicata da Elkier nel 1968; opera per cui il linguaggio maturo di Chopin, scosso ma mai melense, viene paragonato alla scrittura di Bartók. Dopo tale magistrale esecuzione delle mazurche, acquistano una maggior chiarezza le belle parole di Piero Rattalino (programma di sala): «e divenne lui il maestro della Mazurca, divenne lui la pietra del paragone, e tutti coloro che scrissero mazurche dopo di lui – furono moltissimi, una legione! – non riuscirono neppure a scalfire il suo primato. Vi si avvicinarono solo in due, ma a rispettosa distanza: Alexandr Skrjabin e Karol Szymanowski». Applausi commossi, veri: molti in piedi a omaggiarlo. Ho appena detto che il concerto si sarebbe dovuto concludere? Ebbene non era nelle intenzioni né del pubblico, né di Sokolov: ecco che inizia la terza parte, una copiosa sequela di regali al pubblico, interpretati magistralmente, anzi divinamente. Si inizia con tre improvvisi di Schubert (op. 90 nn. 2, 3 e 4), poi si prosegue con uno dei suoi Klavierstücke (D. 946, n. 2); infine un’altra mazurka di Chopin e un valzer dello stesso Schubert. Ancora tributi d’immensa stima per quest’artista grandemente amato dal pubblico di tutto il mondo.