Khatia Buniatishvili e Mikhail Pletnev

Khatia seduce, Mikhail strabilia

 di Alberto Spano

Khatia Buniatishvili propone una lettura radicale del Concerto di Schumann, sostenuta al meglio da un Mikhail Pletnev straordinario sul podio come già al piano.

BOLOGNA, 23 gennaio 2017 – Non vi è alcun dubbio che la ventinovenne pianista georgiana Khatia Buniatishvili sappia amministrare magistralmente in concerto le proprie doti di avvenenza e seduttività: al Teatro Manzoni il suo apparire in scena dopo strategico ritardo, con quel suo ormai tipico ancheggiare, avvolta in uno strepitoso abito rosso carminio con lungo strascico e quel suo occhieggiare compiaciuta al pubblico e all'orchestra, in un mix di seduzione e ironia da vamp anni '50, è stato certamente uno spettacolo ben augurante per gli esiti della serata. E la stretta vicinanza con il direttore russo Mikhail Pletnev, dimesso e un po' goffo come un pretino protestante, aumentava quasi il suo fulgore femminile.

E siccome – Stravinsky docet – l'uomo prima vede, poi ascolta, è altrettanto indubbio che Khatia abbia già quasi vinto la partita al suo solo apparire, tanto da far diventare più arduo il giudizio sul suo modo di suonare oggi, per esempio, il Concerto per pianoforte e orchestra in programma, quello in la minore op. 54 di Robert Schumann, con la Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna, nell'ambito del terzo appuntamento della stagione “Manzoni Factory”. Bene, Khatia suona molto bene, anche questo è indubbio.

La Buniatishvili è un'artista dotata di tecnica notevolissima e di una musicalità spesso spumeggiante e grintosa. In altri repertori la si è ascoltata accendersi con maggiore enfasi e concretezza sonora, come ad esempio in un video del 2008 della Fantasia di Schumann che circola in rete: l'artista aveva appena vent'anni, era una completa sconosciuta ed era reduce dalla vittoria di un significativo terzo premio al Concorso Artur Rubinstein di Tel Aviv, del quale – peraltro – si sono completamente persi in nomi dei suoi competitors.

Dopo otto anni la Buniatishvili oltre che il look ha cambiato anche il suo pianismo. Oggi è meno concreta, affonda poco, gioca tutto sui timbri e, almeno nel Concerto in la minore, pare sceglierne praticamente solo due: un mezzoforte-quasi piano un po' uniforme con cui tutto il concerto risulta come avvolto da una densa nebbiolina, e un secondo timbro più vigoroso (e sempre bello) col quale l'artista emerge ogni tanto con scatti ferini nei punti più appropriati. È una lettura poco romantica e quasi incantatoria, che per esempio rinuncia completamente al bel cantabile di stampo chopiniano che informa il magico episodio in la bemolle minore del primo tempo e anche tutto il sognante lirismo dell'Intermezzo. Una 'maniera' che forse vorrebbe proiettare più avanti di cinquant'anni la visionarietà schumanniana (Debussy? Janacek?) che però non sempre convince. Dal canto suo Pletnev sposa in toto la scelta di Khatia (lui che è uno dei più grandi pianisti viventi), probabilmente non la condivide, ma la accetta e perciò le prepara un guanto orchestrale di grandissimo lusso, con sonorità adeguate e rubati favolosi, non rinunciando a saltuarie evidenze strumentali che risultano come pennellate di colore qua e là in quello sempre un po' spento imposto al pianoforte. Ammirevole il tutto, scelta solistica e coerenza direttoriale. Come degna di nota è la pronta realizzazione della Filarmonica, qui in una delle sue prove migliori dall'anno della sua fondazione, guarda caso proprio il 2008. Le radicali scelte timbriche Khatia le conferma poi nei due bis concessi a furor di popolo: uno sfigurato ma incantevole Minuetto di Händel trascritto da Kempff, e la friska dalla Rapsodia Ungherese n. 2 di Liszt nella fantasmagorica versione di Vladimir Horowitz. In entrambi Khatia sfodera ad abundantiam il suo bel suono “sospeso” e i soliti exploit di rapinoso virtuosismo.

Dopo l'intervallo (e gli inevitabili commenti sul look della pianista pin up), ecco la Sinfonia “Manfred” di Ciaikovskij, brano di rarissima esecuzione, molto amato da Arturo Toscanini, del quale lo stesso Pletnev ha realizzato nel novembre 1993 un'incisione forse definitiva per la Deutsche Grammophon con l'orchestra da lui fondata, la Russian National Orchestra. Dopo ventitré anni di concerti con le maggiori orchestre in tutto il mondo e di esperienze umane le più disparate, la lucida lettura di quell'incisione non sembra sostanzialmente mutata. Appare ancor più miracolosa la sua capacità di dipanare un'opera assai ardua, non semplice sia come struttura che esecutivamente, la quale richiede un organico amplissimo e un po' strano (corno inglese, clarinetto basso, bassotuba, harmonium e “campanella” fuori scena). È un vero spettacolo osservare la concertazione minuziosa e precisa fino al minimo dettaglio di Pletnev, il quale è un grande della musica sia che sieda al pianoforte, sia che si trovi sul podio orchestrale. Praticamente non c'è differenza per lui fra i due strumenti, la sua tecnica è diabolicamente superiore per entrambi, e i risultati si sentono tutti. La Filarmonica appare come rivitalizzata e scattante, con sonorità dense e profonde, sezioni compatte e autentico smalto sonoro. Rispetto all'incisione DG oggi Pletnev forse sembra prediligere i lati più elegiaci della partitura, nei quali ottiene sonorità sempre vibranti. Ma anche nelle grandi perorazioni orchestrali tiene sempre perfettamente la briglia, e risulta addirittura magistrale nell'ampio fugato che conclude l'enorme sinfonia/poema sinfonico ispirato alla lettura del Manfred di Lord Byron, fra evocazioni di spiriti fantastici, idee fisse compulsive, rimpianti e afflizioni. Una grande prestazione da parte dell'orchestra felsinea, un'immensa lezione interpretativa da parte di un direttore fra i più grandi oggi sulla terra.