messa da requiem a firenze

Il Verdi imprevedibile

 di Francesco Lora

Al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Myung-Whun Chung concerta una Messa da Requiem mai sazia di attenzione da parte di orchestra e coro. Per eleganza di stile e coscienza tecnica, nel quartetto di solisti si impone Gregory Kunde.

FIRENZE, 4 marzo 2017 – In Italia è iniziato il mese di Myung-Whun Chung, con ritmi serrati tra i suoi concerti all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (9, 10 e 11 marzo), quelli al Teatro alla Scala (13, 15 e 17) e le recite di Carmen al Teatro La Fenice (dieci levate di sipario, 24 marzo - 4 aprile). L’apertura della serie è però spettata al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, nell’Opera cittadina, dove il maestro sudcoreano ha diretto quella che è insieme una sua partitura prediletta e un cavallo di battaglia dell’orchestra e del coro residenti: la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, che nel cartellone della stessa istituzione e con le stesse maestranze si era ascoltata le ultime volte nel 2013 e nel 2015, diretta da Zubin Mehta e Daniele Gatti, e per la quale in anni recenti anche Riccardo Muti ha voluto con sé le medesime compagini.

Un po’ di cronologia non guasta, poiché ciascuna tra le concertazioni citate ha recato con sé un differente orizzonte poetico – la lettura michelangiolesca di Muti, quella hollywoodiana di Mehta, quella poderosa e plumbea di Gatti – pur egualmente giovandosi del metallo dell’orchestra e del velluto del coro; e poiché la lettura di Chung è tra tutte quella meno connotabile con un solo aggettivo, e anzi quella che coglie più di sorpresa l’uditorio nonché i musicisti stessi. Si coglie un’eco dell’approccio sobrio e sacerdotale di Carlo Maria Giulini, portato a nuovo sfarzo dall’eccellente manodopera: un’orchestra che quanto più è sfogata all’estremo del forte, tanto più si fa non muscolare e massiccia, bensì trasparente, penetrabile e riverberante; e un coro che conferma la consueta e privilegiata collezione di timbri all’italiana, con salute e tecnica impensabili al di là delle Alpi.

Chung getta loro una sfida ardua da sostenere. Il moto, il colore e la tensione della frase sono regolati da un’idea decisa e spesso imprevedibile, ove il contributo personale o l’occasionale disattenzione del singolo professore tradiscono l’immediata estraneità di discorso: come granelli di sabbia depositati sul diamante affinché più innegabili risaltino taglio e rifrazione. Così, la fanfara di trombe in più cori all’inizio della Sequenza, per involontario contrasto di fraseggio con l’insieme, sembra tendere – e fuori luogo – a una spensieratezza morriconiana. Così, basta che un solo membro del coro stacchi gli occhi dal podio perché da metà platea si individui chi ha osato eccedere di una sola tacca dinamica. Così, nel «Rex tremendæ maiestatis» diviene pericoloso l’istintivo recupero, tra le compagini, dell’esperienza fatta con altre bacchette.

Lì Chung tiene infatti dilatato e costante il tempo ben oltre le colossali battute d’attacco, in modo che la reiterazione del tema puntato rimanga stabile nella sua ampiezza: dà così luogo a un incedere impassibile ove si comprende il valore della grazia divina. Ma la tradizionale anticipazione dell’animando a poco a poco, data per scontata dai musicisti, innesca una corsa non richiesta e indice della rarità di questa concertazione. Anche il quartetto dei solisti deve stare all’erta. Sempre più logoro nello smalto e affannato nell’emissione, ma intatto e inebriante nella musicalità del canto, Gregory Kunde è il solo a conversare alla pari con il direttore: eleganza virile, pietosa compunzione e fuoco romantico modulano il suo porgere a ogni passo; e persino il trillo dell’Offertorio, da quasi ogni altro tenore pateticamente preparato e non risolto, suona in lui sgranato, esatto, perfetto.

Lo smalto da vendere si accompagna invece a qualche diverso impaccio nel soprano, nel mezzosoprano e nel basso. Subentrata alla prevista Carmen Giannattasio, Maria José Siri nasconde con signorilità la propria indisposizione: lo si coglie nel registro grave poco corposo e nelle ansie del trascorrere a quello acuto e sopracuto; ma quello centrale rimane rotondo, con timbro personale e fraseggio appassionato. Una fusione magistrale avviene tra il suo canto e quello di Elena Zhidkova, che al contrario confida assai nei cospicui doni di natura ed è invece poco partecipe dal punto di vista espressivo e assertivo (latino sommario nella fonetica e amorfo nelle suggestioni). Gianluca Buratto, a sua volta subentrato a Carlo Colombara, difetta a tratti nell’intonazione, ma sua è la voce più maestosa e risonante, dalla prima all’ultima nota della gamma, unita a un’inedita e solenne commozione.

foto © Pietro Paolini - TerraProject - Contrasto