Michele Mariotti e l'orchestra del Comunale di Bologna

L'omaggio e lo schiaffo

 di Roberta Pedrotti

L'alto valore simbolico dell'omaggio ad Arturo Toscanini nella città dove ricevette lo storico schiaffo è almeno in parte offuscato da un concerto non perfettamente riuscito.

BOLOGNA 25 marzo 2017 - Bologna è la città dello storico schiaffo a Toscanini, episodio infamante la cui memoria resta, tuttavia, monumento inestimabile alla libertà dell'artista e alla barbarie di tutti i fascismi, giustamente proclamata, nel settantesimo della Resistenza, con la posa di una targa in Largo Respighi a memoria dell'episodio [leggi].

Nel centocinquantesimo dalla nascita del maestro parmigiano, Bologna non poteva esimersi dall'unirsi alle celebrazioni con un concerto in onore di colui che, subendo un oltraggio vergognoso, resta simbolo e stimolo di un riscatto antifascista, dovere imprescindibile per ciascuno di noi.

Potremmo, dunque, disquisire del rapporto fra la città delle Due Torri e il grande Arturo, potremmo ragionare sulla presenza sul podio di Michele Mariotti, direttore musicale del Massimo cittadino e rappresentante di un modello di direttore affatto differente da quello irascibile e autoritario incarnato da Toscanini: un segno dei tempi, là dove nasceva la figura moderna del concertatore era necessario imporne l'autorevolezza, rivoluzionando il mondo della musica con un nuovo rigore, con un nuovo sistema produttivo e organizzativo; oggi che questo rigore è, o dovrebbe essere assodato, prevale invece uno spirito di collaborazione, talora una cordialità, mirata a fare dell'opera o del concerto un affiatato lavoro di squadra. I tempi sono cambiati, non necessariamente in meglio o in peggio, ma semplicemente secondo un'evoluzione naturale per cui nulla è immutabile, nulla è indipendente da ciò che l'ha preceduto né ininfluente su ciò che seguirà.

Molto ci piacerebbe poter ragionare su questi temi ideali di stretta attualità nel centocinquantesimo toscaniniano. Purtroppo, però, ci troviamo di fronte alla triste constatazione che l'affollatissimo concerto bolognese ha deluso le aspettative e spento gli entusiasmi.

La delusione è ancora maggiore se si considera che il programma scelto, tutto composto da pagine ben frequentate dal festeggiato, si concentrava in massima parte su brani d'origine operistica (l'unica eccezione è costituita da due dei Quattro pezzi sacri di Verdi, quindi autore parimenti affatto familiare ai complessi del Comunale): l'orchestra di un teatro lirico, spesso ospite anche di festival e istituzioni esterne, impegnata anche in una stagione sinfonica dal repertorio vario e impegnativo non dovrebbe aver problema alcuno nell'inanellare ouverture celeberrime come quelle della Gazza ladra, di Les vêpres siciliennes, Semiramide e Rienzi. Non pagine facili, certo, ma pagine che dovrebbero far parte del bagaglio consueto di un'orchestra come questa. Invece proprio in queste abbiamo udito susseguirsi una serie stupefacente di sbavature, stonature, imprecisioni. Fin dalle prime battute della Gazza ladra abbiamo udito i fiati pasticciare i loro incisi lasciandoci attoniti, mentre flauti e ottavino hanno proseguito (con particolare evidenza negli importanti interventi in Semiramide) fra sonorità taglienti e incontrollate, passaggi più glissati che precisi e scintillanti. L'attacco delle trombe nel Rienzi non è meno precario per intonazione e sostegno del suono, problema che riscontriamo più e più volte, soprattutto fra legni e ottoni, in un'atmosfera costante di instabilità e scarsa coesione complessiva di tutte le sezioni. Quale ne sia la ragione, in un momento di difficoltà e incertezze per tutti i complessi stabili delle nostre fondazioni lirico sinfoniche, la solidarietà incondizionata ai lavoratori dell'arte e della cultura non risulta scalfita, ma non esime nemmeno dal constatare l'insufficienza di questa prova, condotta da un Mariotti – forse in omaggio al festeggiato Toscanini – che pare aver indossato il cimiero di un'irruenza inconsueta, enfatizzata dall'organico al gran completo.

Un po' meglio vanno le cose nella seconda parte, se non altro perché l'ouverture dal Guillaume Tell, seguita dal coro “Hymenée, ta journée” e dal Pas de six sono, a partire dalle recite pesaresi del 2013 [leggi], un cavallo di battaglia riproposto non solo nella ripresa dell'opera al Comunale nel 2014 [leggi], ma anche in numerosi concerti in casa e in trasferta. L'orchestra non riscopre una forma smagliante, ma se non altro si percepisce una maggior coesione e un disegno complessivo più consapevole, un senso del fraseggio e delle dinamiche che non raggiungerà gli esiti del concerto pesarese di due anni fa [leggi], ma si colloca comunque a un livello decisamente superiore rispetto alle ouverture della prima parte. Senza essere memorabili anche lo Stabat Mater e il Te Deum verdiani tornano nello standard medio dei concerti del Comunale: non dei migliori, ma nemmeno sotto il livello di guardia. Si può così apprezzare la straordinaria creazione di Verdi, che traduce in musica il vero significato dell'abusato e frainteso motto “torniamo all'antico e sarà un progresso”: non un invito al conservatorismo, ma allo studio delle basi della storia e della teoria musicale – nello specifico il grande contrappunto rinascimentale – per poter continuare a progredire. La scienza profonda profusa in queste pagine le proietta, infatti, verso il futuro, con soluzioni potenti e ardite.

Il coro, come già nel Guillaume Tell, è solido e affidabile, solista per il Te Deum, la “voce dell'angelo” che in un concerto dedicato a Toscanini si trova caricata della responsabilità ulteriore della memoria di Renata Tebaldi, è Nina Solodovnikova, comprensibilmente emozionata e non aiutata nel cimento (affrontato a testa alta) di attaccare a freddo la nota giusta sulla nota non proprio giusta lanciata dalla tromba. Ma, pazienza, ormai è chiaro che questa non è proprio la serata megliore per l'orchestra del Comunale. Speriamo, ché lo meritano e lo meritiamo, in un avvenir migliore, mentre esplodono generosissimi applausi.