kelemen quartet

La ragione e il sentimento

 di Alberto Spano

Il Kelemen Quartett sigla, per la stagione di Musica Insieme, uno dei migliori concerti uditi a Bologna negli ultimi decenni.

BOLOGNA, 2 maggio 2017 – Avevamo imparato a conoscere il Kelemen Quartet nel maggio di tre anni fa al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, durante le finali della decima edizione del “Premio Paolo Borciani”, concorso fra i più severi al mondo per il quartetto, che i quattro ungheresi capeggiati da Barnabás Kelemen vinsero a mani basse, dopo che nell'edizione precedente (2011) si erano segnalati fra i migliori in campo. Si conobbe una formazione di livello superiore, dotata di una tecnica pazzesca, un'incredibile compattezza ed un'efficienza rara. Sembrò allora un quartetto dotato dell'infallibilità, e proprio per questa sua perfezione assoluta sembrò allora emergere una certa freddezza. Dopo un bel numero di concerti in mezzo mondo e un cambio di violoncellista a metà strada (allora Dora Kokas, la musicalissima sorella del secondo violino Katalin Kokas, ora l'eccellente László Fenyö cui si aggiunge il violista Gábor Homoki), ritroviamo il Kelemen Quartet per il penultimo concerto di Musica Insieme al Teatro Manzoni, e a stento li riconosciamo: i quattro ungheresi sembrano quasi aver cambiato pelle e da gelida macchina da guerra si sono trasformati nel quartetto più incredibilmente espressivo ed emozionante che a nostro avviso circoli sulla piazza oggidì.

Il concerto del 2 maggio è stato certamente un momento di stato di grazia, uno dei migliori concerti uditi in questo teatro e sulla piazza bolognese negli ultimi trent'anni. Non ci facciamo problemi a confermare con forza tale affermazione, perché concerti di questo livello sono rari nella vita di una persona, e le poche volte che capitano, quasi sempre all'insaputa di chi ascolta, le emozioni e le sensazioni provate sono difficili da riferire per iscritto. Qui si parla di molti momenti, di attimi assoluti in cui tutto, anche l'aria che si respira, anche la luce della sala, sembrano esserne contagiati. I nostri quattro eroi sono strumentisti di qualità tecniche e musicali superiori: quattro virtuosi insomma, quattro personalità fortissime, a cominciare dal primo violino Barnabás Kelemen, che coi suoi 39 anni e qualche capello bianco ha alle spalle una carriera solistica da fare invidia ai più grandi violinisti, per esempio la vittoria nel 2002 del Concorso internazionale di Indianapolis. Qualità strumentali fuori dall'ordinario che ritroviamo quasi identiche negli altri tre, con quella particolare facilità e naturalezza nel porgere la musica che è retaggio di pochi al mondo. Questi quattro moschettieri dell'arco, che certamente continuano carriere solistiche strepitose ciascuno per conto suo, appena otto anni fa hanno deciso di provarci col quartetto, e il risultato è stato più che eccellente fin dalla prima prova. Questo lo si capisce perfettamente, poiché si tratta di magie istantanee che a volte avvengono, quegli incontri baciati da dio che non possono essere assolutamente preordinati, ma che semplicemente accadono - lo racconta con ineffabile candore Elisa Pegreffi del compianto Quartetto Italiano in una vecchia intervista televisiva – e che poi, attraverso un grande studio e una feroce abnegazione, possono portare all'eccellenza assoluta. Come quella che si è udita al Manzoni in questo felice concerto, della cui altissima temperatura devono essersi accorti gli esecutori stessi, oltre che il pubblico presente.

Ma sia ben chiaro: non è solo questione di perfezione, di tecnica, di virtuosismo, di intonazione, di compattezza, di scuola o di rispetto del testo. È qualcosa di più profondo, di più spirituale diremmo, un ineffabile mix di bravura, libertà, attenzione e fantasia. E certamente alla fin fine è una questione di suono. Ma non di suono in quanto perfetta emissione di sonorità o di intonazione illibata: quando si parla di suono di un quartetto si intende quell'indescrivibile amalgama di singole sonorità che si riconoscono nella loro identità ma che si mescolano in un sound unico che, nel caso fortuito, sembra come uscire direttamente dai corpi degli strumentisti, dalla loro anima diremmo, e non dagli strumenti da loro suonati, fatti di corde di acciaio e di budello, di archetti con crini di cavallo, di pezzi di legno e di vernici.

Che la serata avrebbe preso una piega straordinaria lo si è capito immediatamente dalle prime note del Quartetto in re maggiore op. 20 n. 4 di Haydn, uno dei cosiddetti “Quartetti del Sole”, banco di prova assoluto per ogni quartetto. Qui la chiarezza polifonica della formazione era addirittura accecante, ma quel senso di lontana algidezza provata durante il concorso era come magicamente sparita, a favore di una cordialità di eloquio, una morbidezza e una succosità di suono (viene in mente la polpa sana di un frutto maturo) che rendevano intelligibile ogni senso musicale, ogni ordito strumentale. Questa estrema bellezza del quartetto, solo due o tre volte toccata da qualche piccola imperfezione che, a mo' di timide su un bel viso femminile, rendeva ancora più perfetto lo stupefacente incarnato del suono del quartetto - quasi a voler ribadire il concetto che la grandezza si può permettere l'errore momentaneo - trovava poi il suo sfogo alto nella più prodigiosa esecuzione da noi udita del Quartetto in la maggiore op. 41 n. 3 di Robert Schumann, opera difficile, complessa e oltremodo infida.

Ebbene, per la prima volta, ogni intento dell'autore sembrava perfettamente compiuto, in un'apoteosi di virtuosismo e di calore: perché tutto col Kelemen prende forma e logica, tutto si spiega, tutto ha un perché, anche una frase apparentemente illogica o faticosa che nell'opera di Schumann a volte si può trovare. Apice assoluto e momento di ipnosi collettiva il meraviglioso Adagio molto, seguito da quella specie di cavalcata eroica finale verso l'infinito che è l'Allegro molto vivace, spauracchio di tutti i quartetti professionisti. I nostri lo eseguivano con invidiabile souplesse e con espressività, con velocità contenuta e dominio sovrano.

Mirabilia si sono poi udite nello struggente Quartettsatz in do minore D 703 di Franz Schubert, in cui i nostri non hanno dimenticato che Schubert è autore romantico ancorché mascherato di classicismo, ma soprattutto nel finale Quartetto n. 5 (1934) di Béla Bartók, in cui il Kelemen dava ulteriore prova di superiore dominio tecnico (ma bastava un allegro haydniano per capire tutto) e di avvincente coinvolgimento musicale ed espressivo. Qui l'incredibile tavolozza timbrica disponibile e la tenuta assoluta, nonché l'entusiasmante realizzazione di ogni intento del compositore, letteralmente esplodevano in un finale glorioso, senza la benché minima cessione a momenti di stanchezza o di distrazione, tutti e quattro coinvolti in un incredibile vortice ritmico e in una apoteosi di ragione e sentimento. Applausi da stadio e bis haydniano di grandissimo pregio.