Philippe Herreweghe, Monteverdi

Monteverdi fiammingo

 di Roberta Pedrotti

Più gotico che caravaggesco il capolavoro sacro monteverdiano nell'interpretazione di Philippe Herreweghe e del Collegium Vocale Gent.

BOLOGNA, 26 ottobre 2017 - Raramente gli edifici di culto godono di un’acustica perfetta per la musica, modellati come sono su esigenze rituali, strutture simboliche, necessità, al più, di far risuonare la parola dell’oratore da posizioni specifiche o canti sacri appositamente concepiti, senza prevedere una fruizione di tipo concertistico. Ciò detto, la Basilica di Santa Maria dei Servi a Bologna mantiene orgogliosamente una propria vivace tradizione musicale, sia con una cappella che è la seconda cittadina dopo quella di S. Petronio, sia ospitando spesso e volentieri concerti classici di vario tipo. Fra questi, è scontato, la fanno da padrone i programmi sacri, che si giovano di una cornice di indubbio fascino, tale da compensare qualche squilibrio fonico nelle posizioni meno provilegiate per l’ascolto.

Così trovare il coronamento dell’omaggio di Bologna Festival al quattrocentocinquantesimo monteverdiano con un Vespro della Beata Vergine a due passi dalla Maestà di Cimabue ha un indubbio fascino.

Ogni cornice, tuttavia, impallidisce di fronte al superbo cosmo sonoro plasmato da Monteverdi, alla profondità con cui gli equilibri vocali, le polifonie pure, le frasi solistiche e i rapporti dialogici sviluppano i testi sacri, veterostestamentari e cristiani. Come la sensualità del Cantico dei Cantici si astrae e si eleva ad assoluto, a simbolo, senza perdere la sua immanenza carnale, la sua dolcezza, che pervade anche i passi profetici, meditativi, così il Magnificat, nel suo continuo articolarsi del numero delle voci e dell’ampiezza polifonica, compenetra l’intimità dell’inno e la sua universalità; parimenti la tenerezza e l’alta retorica nei giochi d’eco del Ave Maris Stella completano un quadro complessivo di rara intelligenza, complessità, forza drammatica e spirituale, sicché un’indubbia finezza teologica si fa carne al punto da toccare anche a prescindere dalla fede, tanto è, d’un tempo, umano e trascendente.

Concertatore officiante, Philippe Herreweghe legge da par suo tanto capolavoro, potendo contare su complessi affinati come quelli del Collegium Vocale Gent. Fra gli strumenti d'epoca spicca il suono aguzzo dei violini, che evoca legni antichi, e quello penetrante e caldo di tromboni e cornetti, mentre il ripieno armonico di tiorba violone e viola da gamba risulta costituzionalmente flebile anche in quello che dovrebbe essere il suo apporto timbrico. Ad ogni modo, il risultato ben si sposa alle caratteristiche delle voci, versate alla chiarezza d’emissione e alla sobrietà d’intenti in perfetta simbiosi con la linea tracciata da Herreweghe, che pare leggere Monteverdi con spirito nordico, accogliendo con una certa pudicizia i chiaroscuri e la vitalità drammatica di un cattolico mediterraneo contemporaneo di Caravaggio. Non che si tratti di un’interpretazione asettica, ma la sua cifra stilistica è da ricercarsi più nel gotico, nel riserbo, nella trina contrappuntistica. La sua intimità è permeata da una sorta di introspezione protestante, da una misurata contrizione, da quel che poi sfocerà nel pietismo, la sua trascendenza si slancia in verticale e non indulge in quella che potrebbe dirsi quasi teatralità, ed è certo accorata pienezza psicologica (ne è un esempio la morbidezza con cui vene accerezzato e smorzato il gioco di falsa eco mària/ Marìa, vale a dire mari/ Maria, pur senza travisarlo).

La partitura si sviluppa come una teoria di guglie, archi rampanti, vetrate policrome, iscritta fra l'Ars Nova e Bach, e il suo status di capolavoro assoluto non risulta scalfito, bensì orientato ad altra prospettiva da cui forme tanto perfette non possono esser svilite. Lo dimostrano i prolungati applausi per questa sacra gemma, ora incastonata in un arazzo fiammingo.

foto Roberto Serra