Rêverie d’inverno

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ospita un concerto anticipatore, per molti versi, del Natale: la Sinfonia n. 1 in sol minore op. 13 “Sogni d’inverno” di Pëtr Il'ič Čajkovskij e Le campane di Sergej Rachmaninov (‘natalizio’, almeno, nel suo primo quadro). Il direttore Stanislav Kochanovsky – che sostituisce l’indisposto Semyon Bychkov –, giovane con ampi margini di miglioramento, dirige compostamente la sinfonia čajkovskijana e con più spirito il capolavoro rachmaninoviano, attestando un buon gradimento del pubblico.

ROMA, 2 dicembre 2017 – Un concerto, in un certo senso, natalizio quello che ha visto il giovane Stanislav Kochanovsky salire, nuovamente, sul podio dell’Accademia Nazionale di Sanata Cecilia – in sostituzione dell’indisposto Semyon Bychkov. Un concerto, perlomeno, invernale, certamente nella prima parte: la splendida Prima sinfonia di Čajkovskij, non a caso ribattezzata “Sogni d’inverno”, gioca costantemente con un’estetica e un linguaggio glaciale, evocante le continue nevicate che ammantano l’amata Russia e anche, con gusto più ‘alessandrino’, le concrezioni glaciali, alluse dal continuo uso dei legni, screziature di luce sul ghiaccio. Kochanovsky ha buona intesa con l’orchestra: il suo gesto è elegante, bello e assai raffinato, che par quasi scolpire il suono. La sorpresa fatata, incantata, con cui il russo scelse di far cominciare l’Allegro tranquillo (un tremulo vapore dei violini su cui si stagliano, all’unisono, flauti e fagotti: con effetto proprio fatato!), che ci apre a un mondo di sogni, è delibata con attenta delicatezza da Kochanovsky, che mostra un gusto per il bel suono, il cesello, il perfezionismo che a Čajkovskij un cultore spasmodico dell’estetica sonora qual era Karajan. Se il primo tema è musicalmente gelido, ma di un gelido fiabesco, il secondo è certamente onirico: nello sviluppo Kochanovsky mantiene l’orchestra sempre a un’agogica controllatissima, quasi ‘stirata’ in alcuni punti, ‘karajanneggiando’ ipso facto. Il che, si badi, può andar bene per il I tempo, ma non per l’intero pezzo. Anche il II tempo (Adagio cantabile ma non tanto) riesce assai bene: la direzione con i guanti di velluto di Kochanovsky è qui, chiaramente, assai produttiva. Però scorgiamo i primi problemi di un eccessivo, come scrivevo, ‘karajanneggiare’: l’indulgere su un’agogica alquanto monotona. Kochanovsky deve ancora lavorare su talune variazioni che ai più possono risultare anche impercettibili, ma che rendono vivida, vitale una partitura. In ogni caso, la morbidissima resa del tema carine piace. Lo Scherzo (III) presenta lo stesso impasse agogico testé descritto (che, ovviamente, qui è particolarmente oneroso): eppure, Kochanovsky ha buone intenzioni di porgere con raffinata gentilezza (ecco, forse, troppo raffinata, almeno in alcuni punti) l’inesauribile vena melodica, un tripudio di bellezza, che caratterizzerà sempre la produzione di Čajkovskij. Peraltro, la Prima cela magnificamente, sotto un velo a tratti incantato e fiabesco, le psicologiche sofferenze che, al contrario, nell’indigenza e nel gelo (che così ben trasfigurato, idealizzato, appare nella composizione), il russo dovette affrontare per venire a capo di questo squisito capolavoro. L’ultimo movimento, dopo il tetro Adagio lugubre, ci fa vedere come Kochanovsky sappia cambiar marcia, all’uopo: nel successivo Allegro, infatti, porta l’orchestra a un volume notevole e conclude epicamente, spettacolarmente, mostrandoci che riesce anche a far altro oltre al bel gesto. L’ideale estetico cui tende Kochanovsky è, quindi, Karajan: alieno, per lo più, a una direzione muscolare, come quella di Markevitch, Kochanovsky potrebbe, però, arricchirsi di una lettura sì estetizzante (e la Prima lo richiede) ma anche vitale, come per esempio quella di Temirkanov.

Il secondo tempo è dedicato a Rachmaninov: Le campane, sorta di ibrida composizione che prevede la presenza del coro, su testo di un poemetto di Edgar Alla Poe, The Bells, anzi sul suo adattamento in russo di Bal’mont. Ascoltare quest’opera, che Rachmaninov considerava tra le sue miglioti, dal vivo è assai raro: quindi ringraziamo l’Accademia e Kochanovsky, che qui prende il testimone da un fine conoscitore della partitura, Sir Antonio Pappano. L’atmosfera d’apertura del I tempo, infatti, è quasi debitrice del fiabesco di Čajkovskij (che Rachmaninov, giustamente, venerava): le campane, qui, sono evocate dal tintinnio delle slitte, che ricordano atmosfere natalizie. Kochanovsky si diverte nel cesello di questo tripudio di tintinnii, trovandosi a suo agio: il magnifico coro e il tenore Sergey Radchenko, dalla voce chiara e squillante, rendono indimenticabile il brano. La tensione sale nella II parte. Le timbriche argentee si stemperano in un torpore orchestrale che lascia, poi, emergere l’assolo del soprano nella II parte: siamo in presenza del suono delle dorate campane matrimoniali, di un coro ieratico, che annuncia un matrimonio. La voce calda, intensa, di Evelina Dobračeva intona una sorta di sidereo imeneo, ammantato musicalmente di tenera malinconia: non a caso è scelta la voce femminile, depositaria dell’immaginario matrimoniale. Kochanovsky si desta agogicamente nella III parte: il terrigno, potente coro si staglia su sonorità stridenti (contrabbassi e ottoni che incupiscono tutto), in un’orgia di suoni che molto deve al primitivismo musorgskijano. La IV parte evoca la dipartita dell’anima dal corpo e il funerale delle spoglie mortali: ancora un’eco musorgskijana si coglie nell’assolo, triste, del corno inglese (vi ricordate? Il vecchio castello dei Quadri di una esposizione). Kochanovsky è bravo a dipingere un’atmosfera orchestrale cupa, lugubre, dove si staglia, quasi ombra evocata, la voce brunita di Dimitry Ivashchenko, qui nella tessitura di baritono (lui che è – e si sente – un basso). Gli applausi finali suggellano una piacevole serata di musica.

foto Musacchio, Ianniello & Pasqualini