Il tenore secondo Spyres

di Roberta Pedrotti

Dal Barocco - vero o falso che sia - a Mozart e Rossini, da Boïeldieu a Verdi e a Caruso, Michael Spyres schizza un efficace ritratto della voce di tenore e ne sfida i limiti naturali spaziando attraverso oltre tre ottave d'estensione, gestendo registri, colori e dinamiche con perizia e spericolatezza belcantistica. Un tenore elettrizzante che vale sempre la pena di ascoltare.

 

 

PESARO 15 agosto 2013 - Michael Spyres è uno di quei cantanti che val sempre la pena di seguire. È un artista con il gusto e la generosità di sorprendere ed elettrizzare il pubblico, un artista che ama cantare, che si sa divertire e sa comunicare il suo piacere e la sua passione a chi lo ascolta. Soprattutto, lo fa con intelligenza, senza dar mai l'impressione di un'esibizione fine a se stessa; canta sfidando i limiti umani in tessiture incredibili, ma non è uno spericolato scriteriato, anzi dà sempre la netta impressione di essere pienamente cosciente di quel che fa. Infatti rispetto al pur travolgente Baldassarre dello scorso anno al Rof l'autoritratto che offre nel Concerto di Belcanto del 15 agosto all'Auditorium Pedrotti ci presenta una sempre più approfondita padronanza della prosodia italiana, un centro più morbido e sostenuto, di bellissimo colore, oltre a un registro grave di fascino baritonale e a un acuto che se non potrà essere sempre di pari penetrazione e squillo, è sempre puntuale e sovente spavaldo. D'altra parte, nel far rivivere il mito del baritenore ottocentesco, Spyres non sembra curarsi delle chimere dell'omogeneità timbrica a tutti i costi, anzi, ci restituisce pienamente lo stupore di una voce caleidoscopica in gradi di soggiogare l'ascoltatore ponendosi però sempre al servizio della partitura e del dramma. Il percorso entusiastico e caparbio di un artista indubbiamente curioso e colto potrebbe poi riservare sorprese anche a chi considera la sua prodigiosa estensione un canto della cicala: la musicalità, la competenza stilistica e i miglioramenti tecnici ci fanno riconoscere in lui anche una savia e studiosa formica destinata a crescere e durare negli anni. E se anche così non fosse, continueremo a essere grati alla cicala per quel che già ci ha dato. In ideale ordine cronologico ecco dunque aprirsi il recital con Stradella (“Se i miei sospiri”, a lui attribuita per tradizione ma con tutta probabilità un falso ottocentesco) e Scarlatti (“Già il sole dal Gange”, dall'Honestà negli amori), ovvero con quelle che, in altre gole, rischierebbero di divenire banalmente arie antiche da solfeggiare per scaldare la voce. Spyres le fraseggia con cura encomiabile, rievocando il nobile genere del lamento e lo sfavillìo dell'aria trionfante. La temperatura si innalza ovviamente con “Se m'involasti un regno” dall'Antigono di Antonio Maria Mazzoni, altro rampollo settecentesco della fecondissima nidiata musicale barocca bolognese: fierissimi affetti tripartiti e arditamente sbalzati in tre ottave d'estensione. Tanta spettacolarità non viene mai meno alla cura musicale e testuale, rimarcata anche nel confronto con la successiva “Un'aura amorosa” mozartiana, in cui Spyres fa sfoggio di legato e mezzavoce impeccabili, senza perdere la grana brunita delle note gravi, qui morbidissime. Al pianoforte non c'è la prevista Sabrina Avantario, indisposta, ma Gianni Fabbrini, storica colonna del Festival, accorso fra una recita e l'altra dell'Occasione fa il ladro, di cui sostiene i recitativi con la consueta verve teatrale. La qualità dell'accompagnamento, complice e personale nonostante la situazione d'emergenza, è costante in tutto il programma e condivide alla perfezione il percorso storico e stilistico dall'idea di antico (vero o falso che sia) fino a Verdi. Tutto gravita, com'è naturale che sia in questo contesto, intorno a Rossini, di cui Spyres affronta dapprima con impagabile simpatia e sicurezza incrollabile l'impervia “Vedrò qual sommo incanto” dalla Scala di seta, per poi ergersi a tragico eroe trionfante e innamorato, ma sull'orlo del precipizio, con l'inebriante sortita di Otello, “Ah sì per voi già sento”. In entrambi i casi l'adesione al testo compenetra perfettamente la gestione dei registri, delle dinamiche e dei colori, da autentico belcantista. Lo stesso belcantista che può così parlare con disinvoltura il linguaggio dell'opéra comique, con l'ironia gotica del richiamo galante allo spettro della Dame blanche di Boïeldieu, lo stesso belcantista che sa rendere tutta l'eleganza e la virilità del canto del Duca di Mantova nel secondo atto, scolpendo il recitativo con belle intenzioni confermate nell'aria cesellata con dovizia di trilli e finezze musicali, perfettamente legata in tutte le gradazioni dinamiche fino a una cabaletta spavalda e abilmente variata. Fra gli applausi scroscianti, alla fine, Spyres si presenta in proscenio impugnando il telefonino per essere certo di ripetere in italiano corretto un breve saluto e un ringraziamento rivolto al pubblico e alla dirigenza del Rossini Opera Festival, esprimendo tutto il suo entusiasmo per la riconferma a Pesaro dopo il Ciro in Babilonia dello scorso anno. Il bis suona come un sincero omaggio all'Italia da parte di un tenore americano, la Serenata di Bracco su testo di Caruso. Non sarà un capolavoro, ma ci è porta con tanta simpatia e tanto calore che è impossibile non gradirla. Sia cicala, formica o entrambe, Michael Spyres è un tenore che vale sempre la pena di ascoltare.