Ghiaccio bollente per Rossini e Verdi

di Roberta Pedrotti

D'amor sull'ali rosee è il titolo del concerto con cui il Rossini Opera Festival rende omaggio a Giuseppe Verdi nel bicentenario della nascita. Protagonista il soprano lettone Marina Rebeka affronta - in un autentico tour de force fra le repliche del Guillaume Tell - per la prima volta un repertorio che sembra adattarsi alla perfezione alla sua vocalità penetrante formata nel belcanto e all'eleganza del suo temperamento intenso e sofisticato.

 

 

PESARO, 19 agosto 2013 - Il Rossini Opera Festival rende omaggio a Verdi. Non con un semplice evento di circostanza, doveroso ossequio alla ricorrenza bicentenaria, bensì, inserito com'è nel cartellone del festival, con un'ulteriore occasione per valutare il rapporto fra l'arte del genius loci pesarese e quella dell'illustre festeggiato. Pochi giorni prima Bruno Cagli aveva illustrato, con la sua scienza ineffabile e l'accattivante eloquio, i contatti fra Rossini e Verdi, gli intrecci biografici, gli scambi d'opinione e i reciproci giudizi; già Michael Spyres, nel suo recital, aveva voluto mostrare nel Duca di Rigoletto il culmine di un percorso di puro belcanto; le recite del Guillaume Tell, infine, riportano alla ribalta la pietra miliare della storia del teatro musicale occidentale, l'addio alle scene di Rossini e, fra i semi che lui ha gettato per il futuro, quello forse di più rapida fioritura, ma anche uno dei più ambigui e inafferrabili. Non sarà dunque un caso se il concerto verdiano D'amor sull'ali rosee è stato affidato al soprano protagonista proprio del Tell, Marina Rebeka, al centro di un percorso di grande impegno, certo, ma anche estremamente significativo e suggestivo. Il programma scelto è ben circoscritto storicamente fra il 1839 e il 1855, le pagine vocali vanno da "Caro nome" a "Non so le tetre immagini", dall'Amalia dei Masnadieri, concepita per l'usignolo svedese Jenny Lind, dal mitico trillo, a Violetta Valery, fino al Bolero di Elena dai Vespri Siciliani, proposto come bis. Nessuna tentazione di cosiddetto drammatico d'agilità, né di espansioni più spinte, bensì una lente puntata su alcune pagine esemplari della continuità con la tradizione rossiniana e protoromantica, per il fine lirismo, modello di canto legato con coloratura di grazia e abbellimenti melismatici, e per il virtuosismo più scoperto delle cabalette o di “Mercé dilette amiche”. La filiazione belcantistica è evidente, ma parimenti evidente la novità del linguaggio, senza cadere nell'equivoco e nel miraggio di una vocalità verdiana onnicomprensiva o peggio di quel drammatico d'agilità che non è esistito se non in alcune singole personalità eccezionali e non può essere considerato storicamente una vera e propria categoria vocale. La scrittura verdiana, nell'arco di oltre mezzo secolo di attività creativa, presenta ben altre costanti stilistiche, come il mordente e la nobiltà del fraseggio, che non quelle vocali di tipologie stereotipate.

 

La traviata è già stata cantata in scena e per intero – Marina Rebeka si presente forte dell'esperienza rossiniana e di una vocalità dallo smalto lucente ed estremamente penetrante. Non capita sovente di ascoltare una Gilda di tale spessore, ed è una grata sorpresa sentir resi con questa pienezza i suoi turbamenti amorosi e sensuali. Così la leggenda di Jenny Lind può rivivere nella perizia belcantista d'un canto incisivo che ne esprima anche la romantica tragicità; così l'abbandono di Medora appare più nobile e altero del consueto. È come Violetta che la Rebeka appare naturalmente più disinvolta e il suo fraseggio più sciolto e personale, ma ciò che più conta è la qualità vocale perfetta per il ruolo: giusto peso, giusto timbro, giusta duttilità. Non c'è il Mi bemolle, ma una nota non scritta importa davvero poco o nulla nell'economia di un'interpretazione notevole anche per il carisma innato di un'artista dall'elegante figura cinematografica, quasi un nordico ghiaccio bollente hitchcockiano. L'estremo acuto giustamente non è esibito, e, complice anche l'intensità dell'impegno fra le recite del Tell, quando preso di slancio denota ancora qualche durezza, che però appare temperata rispetto a qualche anno fa, quando anche i Do apparivano leggermente aperti. Oggi l'evoluzione lirica si accompagna alla ricerca di una maggiore rotondità in tutta la tessitura e a un generale miglioramento tecnico (soprattutto nella gestione del legato e delle dinamiche) nel complesso confortante e foriero di ottimi sviluppi. Il temperamento e il buon gusto dell'artista, poi, garantiscono sempre l'alta qualità della prestazione, d'intrigante coinvolgimento emotivo. Di livello decisamente inferiore è stata invece la prova dell'Orchestra Sinfonica G. Rossini sotto la direzione di Daniele Agiman: le singole sezioni, e in particolare i delicatissimi ottoni, non brillano per qualità e risultano penalizzate pagine giovanili che meriterebbero invece una più decisa rivalutazione esecutiva. Le sinfonie dell'Oberto, conte di san Bonifacio e dalla Giovanna d'Arco, i preludi dai Masnadieri e dal Corsaro rischiano di scivolare nello stereotipo del Verdi “col cimiero” d'ascendenza bandistica, ma possono altresì rivelare fascini sorprendenti nei contrasti fra crescendo rapinosi, squarci cantabili e lievi ricami solistici. Purtroppo è proprio la tensione interna, la continuità del fraseggio a mancare, con un incedere stentato che riduce di molto l'interesse – e la godibilità – di queste pagine. Protagonista resta il canto e la Rebeka sa imporre la sua personalità, entrando nel fuoco verdiano con i bagliori di un'aurora boreale. Il suo futuro verdiano è ancora tutto da scrivere, ma le premesse sono assai intriganti e il pubblico la premia (insieme con Giorgio Misseri, interprete delle frasi fuori scena di Alfredo) con calorosissimi applausi.