O bella età d'inganni e d'utopie

 di Roberta Pedrotti

La stagione lirica del Comunale di Bologna si apre con uno spettacolo capolavoro firmato da Michele Mariotti e Graham Vick. Si riscopre nella Bohème, come fosse la prima volta che la vediamo e ascoltiamo, una verità lacerante, che parla della vita di tutti noi.

BOLOGNA, 19 gennaio 2018 - Sembra impossibile poter dire qualcosa di nuovo in un'opera come La bohème, e difatti l'atto più rivoluzionario, quasi dirompente, consiste, né più né meno, nel raccontare La bohème. Guardandosi dentro, guardandosi intorno, ma non guardandosi alle spalle, perché i quattro quadri di Puccini, Illica e Giacosa non sono una serie di graziose cartoline seppiate con cui decorare il salotto buono, non sono buoni sentimenti da accarezzare con patetismo d'appendice. Non sono risaputi, visti e rivisti: sono vita, vita vera, che fa male, sanguina, ci appartiene. È qualcosa che fa parte della nostra esperienza diretta e ci è sempre presente, non la osserviamo, ma la sentiamo nella nostra pelle. Ciascuno di noi può riconoscersi in questa Bohème, può pensare "questa è la mia storia, anch'io sono stato uno di loro, anch'io li ho conosciuti". Un piccolo miracolo che Graham Vick compie giocando a meraviglia, come sempre nel suo teatro, fra il realismo e lo straniamento, fra la definizione meticolosa del dettaglio e l'ellissi, eco dell'idea poetica di "vaghezza" delineata da Leopardi. Tutto appare vero come un ricordo, preciso e talora sfuggente, che si ricrea e si ricompleta come un meccanismo tanto perfetto, innescato nel profondo della parola musicale, da non apparire nemmeno un meccanismo studiato, ma la più naturale, ineludibile, pura e semplice verità. E difatti che non c'è iato fra gli elementi di commedia scanzonata e quelli drammatici, dal primo istante si innesca un racconto serratissimo e compatto, variegato e sfumato come lo è l'esistenza. La classe del regista gioca nella sottrazione, nel dettaglio giusto al momento giusto, nel gesto che,  quasi inconsapevolmente ti entra nel cuore, perfino il più banale e quotidiano, come quello di Colline che ritira il bucato steso.

L'appartamentino studentesco, il mercatino di Natale, le strade notturne dello spaccio, dello sballo e dell'emarginazione: a Bologna tutti riconosciamo la città universitaria, con le sue contraddizioni, i suoi locali, il suo fascino e i suoi problemi. Sembra incredibile come Vick, il suo scenografo e costumista Richard Hudson e il creatore delle luci Giuseppe Di Iorio abbiano creato un ambiente che può essere universale, ma che corrisponde così esattamente all'atmosfera che si respira all'ombra delle Due torri, pare di riconoscere l'angolo di strada, le persone, quel Benoit/ Alcindoro che è un perfetto, impettito "umarell" dalla maldestra doppia vita, così reale, senz'ombra di caricatura, eppure così tipico.

Tutto vive nella parola musicale, tant'è vero che il libretto di Illica e Giacosa non è mai parso così bello, struggente, autentico come ora, spogliato d'ogni leziosità nella cura che Vick sulla scena e Michele Mariotti sul podio, in simbiosi perfetta, gli prestano. Una profonda cognizione del dolore monta di scena in scena, fondendo melodia e canto di conversazione per renderci un Puccini perfino sconcertante, crudele anche nel suo esser dolce, perché, ancora una volta, non v'è nulla di più del necessario, dell'essenza, non c'è sentimentalismo, non si aggiunge miele né fiele: non serve. Basta quel pianissimo in cui svapora "Addio, senza rancor" a dire che non c'è addio senza rancore, senza dolore, che gli amori che si credono eterni, i primi amori sensuali, assoluti, totali si trasformano in ferite quando qualcosa, qualsiasi cosa, si rompe, quando non si riesce a far fronte alla realtà, ci si aggrappa a un sogno o lo si sente tramutare in una persecuzione. Non importa quali siano i casi di ogni singola esistenza, importa un amore che nasce (e tutto il primo incontro fra Mimì e Rodolfo ha un'intensità concreta e poetica che toglie il fiato fin nel minimo scambio di sguardi) e non riesce a sopravvivere, trasformandosi in una catena di fughe, ritorni, sofferenze. Così, quando Mimì ricompare per morire - finalmente in un chiaro clima estivo in cui sono ancor più impressionanti i brividi di freddo dell'agonizzante - Rodolfo le sorride, si riaffaccia la memoria, l'affetto, ma si riapre anche una ferita che si voleva rimarginata, e di fronte alla sofferenza di lei che ancora una volta gli si aggrappa non può che crollare e fuggire. Difficile immaginare un quarto quadro più struggente e crudele, con un'orchestra che arriva a esser spettrale, eco evanescente dei sogni passati: Puccini si riconferma degno contemporaneo di Berg e Mahler, lo sguardo allucinato di Rodolfo sull'orlo di una crisi di nervi rende le ultime battute, "quell'andare e venire" un momento di teatro musicale che strappa il cuore.

Perché scatti questa scintilla e in sala si faccia palpabile quest'emozione, deve realizzarsi una speciale alchimia e ogni elemento risulta fondamentale, in un delicato equilibrio complessivo. Qui, semplicemente, pare che i cantanti in interpretino un'opera, ma siano i rispettivi personaggi, ne incarnino la realtà immanente e la verità universale, psicologie dipinte con pochi tratti che si conficcano nella memoria. Basti pensare allo spettro dinamico con cui si esprime la Mimì di Mariangela Sicilia, così accorata e delicata, volitiva e fragile, capace di sfumare con diversa intenzione sia la poesia un po' stralunata del suo autoritratto, sia la progressiva seduzione, sia il dolore del distacco, l'ostinazione dell'amore. Il freschissimo, squillante Rodolfo di Francesco Demuro possiede a sua volta un'ambiguità di fondo: non è (solo) un poeta sognatore, ma soprattutto un ragazzo, un ragazzo che soffre e reagisce, insofferente, inquieto, umanamente, sinceramente contraddittorio. Hasmik Torosyan ci ricorda che dietro l'esuberanza sfrontata di Musetta, dietro quella sensualità esibita sfacciatamente, quegli eccessi dettati dalle tentazioni dell'alcol e della coca, vuoi con un amante maturo e danaroso vuoi nello sballo notturno dei vicoli del centro, c'è una ragazza in carne e ossa, con i suoi sentimenti e la sua sensibilità. Così seduce quel ragazzone apparentemente pacato di Marcello, che la vorrebbe tutta per sé e non resiste al fascino di quella vita sregolata che pure lo fa soffrire: Nicola Alaimo fa battere un grande cuore e, nel finale, sa rendere veramente doloroso il suo "coraggio" rivolto a un Rodolfo che ha appena compreso con orrore di star accarezzando un cadavere. Difficile, poi, ricordare d'aver mai provato tanto empatico affetto per Schaunard come in questo caso: Andrea Vincenzo Bonsignore è un buon giovanotto spiritoso, che compra un alberello di Natale e copre gli occhi all'angioletto del puntale perché non assista al racconto delle "nefandezze" di Benoit; è un giovanotto desideroso di rendersi utile, affettuoso, vuol davvero bene a Mimì e le sta vicino, nel quarto atto, anche più di Rodolfo, rendendo così particolarmente toccante l'invito di Colline a farsi da parte. Questi, apparentemente il più serio, e composto, il più ordinato e l'unico a interessarsi alle faccende di casa, è Evgeny Stavinsky, che ci pare molto maturato rispetto alla Lucia di qualche mese fa e merita caldi applausi per la sua "Vecchia zimarra". Nondimeno Bruno Lazzaretti (Benoit e Alcindoro un po' parlanti, ma incarnati alla perfezione), Guang Ho (Parpignol), Michele Castagnaro (Sergente), Raffaele Costantini (doganiere) e Martino Fullone (venditore) con i cori d'adulti e bambini preparati da Andrea Faidutti e Alhambra Superchi contribuiscono al meccanismo perfetto di uno scampolo di vita elevato all'universalità dell'arte in cui ciascuno può riconoscere una propria esperienza particolare.

Un'inaugurazione di stagione in grande stile, in cui la cornice mondana non sovrasta l'autentica emozione di uno degli spettacoli più riusciti visti a Bologna da parecchi anni a questa parte, forse il migliore fra quelli nati al Comunale. Una Bohème che si riscopre come la prima volta e riesce a sorprendere con una commozione vera e nuova: quale risultato migliore per una delel opere più note, eseguite, abusate dell'intero repertorio?

foto Rocco Casaluci